E se andassimo al cinema?
A Capodanno, un po’ brilli dal vino e dal whiskey che bevevamo mentre Dan mi stracciava a poker, ci siamo promessi che nel 2017 una volta alla settimana saremmo andati al cinema. Sofia, santa Sofia, si occupa di Luca e di Emma in modo esemplare ogni volta che io e Dan andiamo fuori: prepara da mangiare per sé o per i suoi fratelli (ogni tanto, è vero, ordina, ma ci sta), porta Luca in bagno e organizza il suo iPad, mette a letto Emma, anche se non sempre le legge un libro, e non si lamenta mai e poi mai. Siamo d’accordo che ogni volta che fa da babysitter la pago. Mi sembrava giusto così: se lei ci permette di avere due ore di libertà, deve essere retribuita. Arrossendo, mi aveva detto di non preoccuparmi, che questa è la sua famiglia e che se c’è da fare, si fa. Poi a settembre se ne va, lasciando un vuoto incolmabile in tutti i sensi con cui devo ancora fare i conti, compreso il suo aiuto imparagonabile che dà alla storia d’amore fra me e il suo papà, perché uscire e poter parlare senza interruzione è sano per una coppia. Le volte che penso di essere alla fine della nostra storia d’amore sono tante, ma vengono matematicamente azzerate ogni volta che andiamo a giocare a biliardo e lui mi prende un po’ in giro perché non sono brava. Basta poco per ricredersi.
Vabbè, la sto facendo lunga, solo per dire che
poi alla fine una volta alla settimana non è mai successo che io e Dan andassimo
al cinema: una settimana non me la sentivo, un’altra Dan era stravolto, un’altra
ancora Sofia si incontrava con degli amici, o io ero in Italia, o non c’erano
film belli da vedere. Insomma, alla fine siamo andati tipo quattro volte, da
gennaio. Comunque una vittoria, mi dico, considerato il tipo di famiglia che mi
sono costruita in questi vent’anni.
Ieri è stata una delle quattro volte, nata
probabilmente da una litigata avuta la sera prima, con io che mi lamentavo che
Dan arriva a casa sempre stanco, che è la cosa meno sexy che si possa
immaginare avere uno che continua a dirti che è stanco, e Dan che diceva cos’è
non posso neanche avere più il diritto di dire che sono stanco, e io che dicevo
che non ti si può più dir niente che ti offendi. Una sera così: difficile. Per
cui il giorno dopo Dan mi fa: “Hai voglia di andare al cinema stasera? Possiamo
prenderci qualcosa da mangiare in quel ristorante che fa barbecue vicino al
cinema e poi andare. Danno ‘I Am Not My Negro’. Vuoi?”, lasciando a me la
decisione, cosa che mi fa arrabbiare, ma solo perché sono davvero una stronza. Le
mestruazioni erano in ritardo di un giorno, ma già mi sentivo loffia, stanca, per
cui avevo quasi detto di no, tanto che ero andata a fare la spesa per preparare
la cena e mangiare tutti insieme. Ma poi Dan me l’ha richiesto e a quel punto,
con poca convinzione, ho detto che occhei, ci sarei andata con lui al
ristorante del barbecue e poi al cinema. Avevo letto del film: un documentario su James
Baldwin, autore che amo, e sul suo rapporto con Medgar Evers, Malcom X, Martin
Luther King e con tutta la parte bianca dell’America. Figo.
Ho sentito il clacson proprio mentre stavo
intervistando Emma su Hamilton, un musical che ha fatto furore qui in America,
per il mio articolo per Linus per maggio, e il tempismo pessimo di Dan mi aveva
già fatto alzare la pressione di un po’. Scatto, mi metto la mia giacca di
pelle, esco. Andiamo a mangiare al ristorante quello nuovo
a Kendall square, che fa roba del Sud: barbecue, bourbon, robe così. Ordino un
panino con il pulled pork, che non esiste in Italia per cui non sto qui a tradurre,
una birra belga (non bevo altro) e io e Dan parliamo del più e del meno. Un po’
di fretta perché il film inizia tra poco.
Corriamo verso il cinema, compriamo il
biglietto esattamente sette minuti dopo l’inizio e mi viene subito in mente
Woody Allen che dice che lui se il film è iniziato mai nella vita. Anch’io sono
così, ma Dan mi ricorda che prima ci sono le pubblicità, e che lui deve far
pipì. Anch’io, gli dico. Ci vediamo nella sala. Tiro giù pantaloni e mutande e
scopro che mi sono venute le mestruazioni. Cazzo. Non ho neanche un assorbente
in borsa. Mi ricordo che anche l’altra volta che siamo venuti mi erano
venute le mestruazioni e non avevo l’assorbente. Mi tiro su i pantaloni e esco
per cercare una di quelle macchinette che con 50 centesimi ti compri un
assorbente interno, ma non c’è. In compenso, noto, c’è dove cambiare il
pannolino a un bambino, e il mio nervo femminista trema come una corda di violino.
“What the fuck!”, mi dico in inglese. Prendo un po’ di salviette di carta per
asciugarsi le mani e le uso come assorbente. Vado a cercare Dan che il film non
è ancora iniziato. Woody Allen sarebbe contento.
Poi inizia il documentario più
straordinario che io abbia mai visto. Rapporto bianchi-neri. Leader ammazzati.
Senso di colpa per avere una vita di privilegi mentre i neri sempre nella merda.
Critiche sacrosante ai bianchi americani per non accettare cosa è realmente accaduto
in questo Paese, cioè di tutto. Io piango come una bestia, Dan mi prende la
mano e dice shhhh. Mi sento una merda: il colore della mia pelle mi classifica,
anche se mi dico che io non c’entro niente, che mica le penso queste cose sui
neri, che poi sono italiana e ho una storia diversa, con invasioni barbariche,
Napoleone, robe così. Pensieri che comunque sono intrisi di sensi di colpa.
Poi ad un tratto dalla sala si alza uno e si
avvia verso l’uscita e mi distrae. Si avvicina e mi accorgo che è nero. Oddìo,
mi dico, sarà incazzato con me perché sono bianca. Andrà a prendere il suo
mitra in macchina e tornerà per farci fuori tutti, noi bianchi di merda. Poi penso: certo che sei stronza, subito a pensare che perché è nero deve essere
violento. Il film continua, le parole di Baldwin mi trafiggono come degli aghi.
Piango. Dopo poco rientra il tipo: ecco adesso mi ammazza. Invece no,
va a sedersi dov’era prima. Sento forte e fastidioso sulle
mie spalle il peso dell’essere bianca. Poi, mi sento le salviette che avevo
preso nel bagno inzupparsi. Vorrei una birra o un bourbon del ristorante di
fianco. Il film va avanti e è ancora più bello di quello che pensassi.
Finisce e mi sento anche io una minoranza:
sono donna, bianca e senza problemi economici, ma pur sempre donna e dunque minoranza.
Mi faccio coraggio e decido che Baldwin ha ragione e che non si può continuare
così, per cui vado dalla ragazza che vende i popcorn e le dico: “In bagno non
ci sono assorbenti, e neanche la macchinetta per comprarli!”. Lei mi guarda
stupefatta e confusa e risponde: “Ok, lo
dirò al mio manager”. Mi sento anche io
un po’ rivoluzionaria, e dentro di me, di nascosto, mi gaso.
“Credo che sia il film più importante che io
abbia ma visto negli ultimi dieci anni”, dico a Dan con ancora il magone in
gola, mentre saliamo in macchina.
Poi niente, torniamo a casa presto perché a me
serve un OB.
Dopo aver letto il tuo post, mesi fa, mi ero ripromessa di andarlo a vedere. E finalmente ieri sera l'ho visto, sul grande schermo in Piazza Maggiore a Bologna, da sola. Bellissimo. Sono tornata a casa con un groviglio nello stomaco e una frase che in realtà non c'era ma è come se ci fosse stata "come tu mi definisci definisce te, non me".
RispondiEliminaFrancesca