devo andare a lavorare...

Lo ammetto senza vergogna: sono molto intimidita e insicura dall'idea di andare a lavorare. In questi tre anni a Cambridge ho tentato di crearmi un ritmo, una routine, che mi aiutasse a sentirmi a mio agio dopo il grosso cambiamento che abbiamo fatto trasferendoci da otto anni di Brooklyn. Porto a scuola Emma, vado in palestra, faccio un po' di commissioni, porto fuori i cani, aspetto i ragazzi che tornano da scuola, la terapista di Luca. Ogni giorno, piu' o meno, faccio gli stessi movimenti, gli stessi spostamenti.
 
Siccome, appunto, sto cercando lavoro e la mia routine, cosi' familiare e confortevole, sta per essere stravolta, ho deciso che il modo migliore per diminuire la mia insicurezza e' fare un'esperienza nuova ogni settimana: iscrivermi a un corso di meditazione, fare un giro in bici, fare una lezione di yoga, andare a piedi fino alla North End.
 
Oggi ho deciso di seguire una lezione di mezz'ora lavorando sugli addominali, seguita da un'ora di kickboxing. No so cosa mi sia preso. Sono andata in palestra, come sempre, e ho visto che c'era sta lezione e mi son detta, ecco la mia esperienza settimanale. O la va o la spacca.
 
Facendo finta di sapere esattamente cosa fare, mi avvio negli spogliatoi. Mi preparo: pantaloni grigi della tuta e maglietta rossa slabrata, utilizzabile solo in palestra. Le mie belle scarpe da ginnastica, la mia bottiglia d'acqua e via. La stanza dove ci si incontra per il corso e' buia. Per non far vedere che sono agitata, mi siedo su uno di quegli attrezzi che pompano i muscoli delle cosce, e sempre con la mia non chalance, mi metto a pompare. Uno, due, tre.
 
Dopo pochi minuti vedo una donna entrare nella stanza del corso e accendere la luce. Non volevo, ovviamente, essere la prima a entrare, per cui ho continuato per qualche minuto. Uno, due, tre.
Entro nella stanza e ci sono gia' tre persone; tutte e tre donne, una decina di anni piu' giovani di me, e una ventina di chili di meno. Vabbe', mi dico, son qui per dimagrire, dopo tutto. Lascia perdere, Marina, mi dice una vocina che subito decido di ignorare.
 
Un paragrafo deve essere dedicato alla maestra, perche', credetemi, merita. E' vestita di nero: i pantaloni sono attillatissimi, e la canottiera nera anche. Il corpo e' una palla di muscoli: lei salta e non si muove niente di niente: non ballano le tette, non ballano le cosce. Niente. Dura come un pezzo di legno. Il suo culo e' piu' piccolo di Sofia, che ha undici anni e pesa come una piuma. La sua statura, anche. Le scarpe, nere anche loro, fanno un rumore come di tacchi. Continuo a fissarle, ma a dire il vero non ho capito come fossero. I capelli sono lisci, lunghi e ossigenati. Anche loro, come il resto del corpo, si muovono pochissimo quando salta, bruciati da anni di tinture varie. Ha un microfono, di quelli attaccati a delle cuffie, per dire, cosi' che si puo' muovere senza problemi. La stanza e' piccolissima, e mi chiedo perche' ha bisogno del microfono. Lo capisco due secondi dopo, quando accende la musica a massimo volume. E' truccatissima. E' bruttissima. Pero', magra.
A poco a poco arrivano altre donne, tutte magre e giovani. La mia vocina, quella che mi dice di andarmene, si sta pisciando addosso dal ridere. Io ignoro, prendo il mio materassino nero, faccio finta di fare dello stretching, come la ragazza ventenne davanti a me. Non potremmo mai essere amiche, io e lei.
 
Inizia la musica altissima, e la maestra, coi suoi capelli e il suo rossetto, si mette davanti allo specchio e comincia a dire cosa fare. La prima mezz'ora si lavora sugli addominali. Io i miei li ho persi di vista dopo la mia prima gravidanza, quattordici anni fa a novembre. Squeeze, dice lei al microfono. Sqeeze cosa che io gli addominali non li trovo da nessuna parte. Squeeze, squeeze. Prima facciamo degli esercizi da in piedi: gambe larghe e piegate e via: destro, sinistro, per un miliardo di volte. Quando speri che possa leggere la pieta' nei miei occhi, mi guarda dallo specchio e mi dice One more time.
 
Poi dice di coricarci. Ale' magari adesso mi riposo un attimo. Invece no, up, down, up, down ripete inesorabile in quel microfono di merda. Mi fa fare delle robe che non sapevo il mio corpo potesse fare. Mezz'ora di addominali e' come dire sette ore di corsa per me. Insomma, sudando come una bestia, guardo l'orologio e mi accorgo che quasi ci siamo. Gli ultimi minuti sono durati un'ora e tre quarti, con sta finta bionda che mi torturava. Ma poi e' finita.
 
Annuncia che la prossima ora sara' durissima. Per le ventenni. Io mi asciugo il sudore e mi dico, io vado a casa. Poi entra una signora, magari un po' piu' grande di me e mi dice, kickboxing is fun!, come per dire non e' che te ne vai, vero?
 
La finta bionda mi guarda e mi dice, fai quello che puoi, non devi sempre saltare, se sei stanca ti fermi, che io ci sono anche rimasta male. Come, fai quello che puoi? Adesso me lo dici? E' mezz'ora che mi faccio il culo e adesso mi dici fai quello che puoi? Non potevi dirmelo prima?
 
Cambia musica: il ritmo e' molto piu' veloce. Gli esercizi iniziano anche questa volta in piedi, ma qui ci vuole coordinazione. Io mi concentro come se dovessi fare una divisione a tre cifre a mente. Ce la metto tutta. La mia vocina interna ormai e' piegata in due dal ridere, non riesce neanche piu' a respirare, sta carogna. Due passi a destra, saltello, tre passi a sinistra, gamba su, ginochio giu, sedere dentro, spalla a sinistra, veloce, ripetere. Io vado nel pallone piu' completo. La mia maglietta rossa che spicca tra le magliette molto piu' professionali di quelle stronze di giovincelle magre. Ma io non mollo. Muoio ma sta lezione la finisco com'e' vero iddio.
 
Dopo mezz'ora credo di avere un infarto. Faccio per fermarmi un attimo e il microfono mi urla don't stop now, keep moving, KEEP MOVING! Io sto per mandarla a cagare, lei il suo microfono e i suoi capelli ossigenati. E invece mi ributto e vado, gamba sinistra su, destra giu, pugni a destra e a sinstra, one more time. Poi ci fa saltare la corda per un bel dieci minuti, che all'inizio dici, vabbe' questo e' facile, ma gia' al quarto minuto ti senti meno sicura. Al settimo implori. Al nono speri in una morte anche violenta, basta che mi facciano smettere.
 
Good work, dice lei, che non ha neanche uina gocciolina di sudore. Io faccio quella che esce normalmente e va a far la doccia. Girato l'angolo mi son detta, io sto qui a dormire stanotte, non ce la faccio neanche ad arrivare fino agli spogliatoi, figurati tornare a casa in bici. Raccolgo tutte le mie forze e piano piano mi avvio alla porta degli spogliatoi. Con calma mi spoglio, mi butto sotto la doccia. Esco, nuda, e chi mi vedo? la maestra che mi dice, you did a good job. Mi son subito sentita meglio. Mi vesto, vado a prendere la bici e fresca come una rosa torno a casa.
O la va o la spacca. A me mi ha spaccato, ma martedi' prossimo ancora.
 
Poi la settimana prossima mi lancio col paracadute.
Che devo andare a lavorare.

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