Senz'apostrofo


Diciottanni. Senza neanche l’apostrofo perchè a dicottanni si può, ostia. Roba che neanche i miei genitori, per motivi ovvi, sono arrivati. Diciottanni che sono sposata.
Il matrimonio è stato tutta colpa mia, come quasi ogni volta. È che ero qui senza neanche un visto, e vivevo con lui da ormai un anno e mezzo. Bene. Dico, eravamo una coppia quasi perfetta: un miliardo di amici, il teatro, la scuola, la mia arte, le feste, le serate al bar Budapest, che a noi e a alcuni (pochi) vecchietti sembrava l’Eden. Insomma, senza visto si parte, si torna dalla mamma. E si lascia un amore enorme e una vita si, lontana dalle sorelle, dal Giorgio, da Milena e Bruno, dalla via Lomellina; ma anche una vita finalmente mia. Anzi di più. Nostra.
L’unica ancora di salvezza era sposarci, nel senso di decidere di stare insieme per sempre, o quasi. Io non avevo dubbi. Certo che avrei voluto stare con lui per il resto della mia vita.
Spiego Dan, anche se so è impossibile: bello, anzi no, bellissimo. Tremendamente brillante. Con lui si parla di tutto, dal quinto girone di Dante, a Carducci, a Tom Waits, alla seconda guerra mondiale, alla situazione del medio Oriente, al problema del razzismo, alla poesia di Jimi Hendrix, a Steinbeck, a Pirandello, alla ricetta del guacamole. Tutto di tutto e sempre con qualcosa da imparare. Per non parlare della sua unica abilità di scrivere e di suonare la chitarra, che nelle sue mani diventa uno strumento completo, armonico, perfetto.
E poi come si relaziona agli altri: sempre cordiale, quasi schivo, timido. Ma sei hai la pazienza, gli tiri fuori robe che poi non dimentichi mica. Mai.
Certo che io avrei voluto sposarlo. Allora e per sempre.
Lui, invece, meno. Io sono più complessa: parlo sempre al momento sbagliato, ho dei cromosomi strani, pieni di scommesse ai cavalli, di idee cattocomuniste, di lezioni private di piano, di otto marzo a urlare in piazza, di amici balordi, di idee strambe e senza una logica. Diversa. Diversissima da lui, che, pacato, conduce una vita tranquilla senza troppe rotture di coglioni.
Ma io insisto, lo chiudo fuori tutta una notte, gli ricordo che se dice di no, allora devo andarmene. Non so cosa lo abbia fatto decidere. Ma un giorno, anzi una sera, davanti a degli avanzi, sotto una luce di lampadina sfigata, mi guarda e si mette a ridere. Io lo guardo come si guarda un gorilla e gli dico, in che senso. Lui ridendo come un pirla si inginocchia e tira fuori dai sui pantaloni sempre troppo larghi una scatoletta verde, con dentro un anello. L’anello di fidanzamento della sua nonna. Anni Trenta, con un bel diamante. Ridendo, in ginocchio in cucina, davanti a una cotoletta riscaldata, mi da l’anello e il suo cuore tutto.
E poi ci sposiamo. Diciottanni fa, senz’apostrofo. E io che lo amo ancora come quella volta lì, mi sento anche un pò scema a dire queste cose. Ma sono anche felice. Felicissima di averlo ancora qui cone me, a ridere da pisciarsi addosso.

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