Nette sensazioni
A volte ho la netta sensazione di non essere da sola. Quando
sono da sola mi metto le dita nel naso, se c’ho voglia, o ballo nuda con la
ciccia che balla anche lei a tempo di musica. Faccio insomma cose che non farei
neanche davanti a mia madre. Ecco, a volte, invece, no. Anzi, mi comporto come
mi comporterei se quella persona fosse qui con me: parlo a voce alta, faccio
robe che farei; mi imbarazzo se per caso inciampo o faccio cose che non farei.
Non sono dei morti, non è che io senta la presenza di spiriti. A volte non sono
neanche persone che conosco personalmente: potrebbe essere Barack Obama,
Vinicio Capossela, e a volte è il mio professore di sociologia a Brooklyn
College, un’amica, un ex fidanzato. Mia madre. Chiunque mi capita di sentire
qui al momento. A volte stanno con me solo per un’oretta, poi vanno, e a volte
stanno con me per una giornata intera, per una notte, per un weekend. Poi vanno
via e mi mancano, e mi sento sola, mentre da sola mi scappero.
A volte ho la netta sensazione di aver perso tanti treni.
Non dovrei mai fare confronti, anche perché se mi sento figa mi confronto con
dei pirla per avere la conferma del mio essere figa. E quando sono giù penso a
chi invece in tre mesi ha fatto quello che io non riuscirò a fare in una vita. Ma
insomma, mi sembra che di treni ne siano passati e molti hanno fatto dei bei
viaggi. Uno dei treni che ho perso mi avrebbe portato a un bel lavoro, pieno di
soddisfazioni: ho invece usato la scusa dell’autismo di Luca, poi quella della
mancanza di laurea, poi ho dato la colpa alla depressione, poi all’età
avanzata. Tutti treni persi. E ho la netta sensazione di essere ancora in
stazione, ma non quella centrale di Milano, che, come ha detto una volta mio
padre, nella sua bruttezza è splendida. No: io sono qui, dall’altra parte della
terra, senza la minima possibilità di incontrare un vecchio compagno di scuola
o un vicino o l’ex medico di famiglia e di stare a chiacchierare, mentre il
treno va, va, va.
A volte ho la netta sensazione di aver sempre lottato per le
battaglie sbagliate, senza riuscire a capire quali fossero quelle importanti.
Ho letto, studiato, fatte mie molte teorie femministe su come impostare la
famiglia in modo tale che non assomigliasse a quelle dei sobborghi americani della
metà degli anni Cinquanta. Parlo di quelle con il marito che va a lavorare, e
porta a casa i soldi e lì finisce la sua responsabilità. Poi per dare il
contentino, a volte apparecchia o fa addirittura la cucina. E la moglie, che
porta avanti i figli, la casa e tutto il resto soltanto grazie a una massiccia
dose di antidepressivi e con l’insoddisfazione intellettuale e il vuoto nel
cuore per una mancata vita propria. Le ho lette tutte, queste cose; le ho
sottolineate con l’evidenziatore giallo tipico degli anni universitari. Le rileggo,
a volte, dicendo che hanno tutti ragione. E poi mi soffermo velocemente a
quello che ho intorno e non posso fare a meno di vedermi come in un film,
quelli in bianco e nero, con la moglie che aspetta il marito la sera per
parlare con un adulto, ma non ha niente da raccontare perché non è successo un
cazzo tutto il giorno.
A volte ho la netta sensazione di vivere in un mondo che non
esiste: quello di una Milano lasciata vent’anni fa, e siccome me lo posso
inventare come voglio io, mi disegno una roba bellissima, piena di impegni
importanti, di soddisfazioni, di amicizie, di uomini che mi desiderano. Una
carriera della madonna, invitata a destra e a sinistra a dire la mia, che è
quella che conta. E poi invece guardo questa vita e mi deprimo, anche se so che
questa è quella vera, non l’altra. E mi faccio lunghi trip di autovittimismo patetico e inutile.
A volte ho la netta sensazione che tutti questi anni ad
aspettare qualcosa che non so si confermeranno importanti, no anzi, essenziali
per quello che verrà dopo, che sarà pieno di belle robe. Tutte le mie parole
scritte, i miei momenti di solitudine e di torpore verranno celebrati da
qualcuno, voranno dire qualcosa. La mia netta sensazione di essere rinchiusa in un
barattolo di miele, che rende ogni movimento lento e comunque limitato al
vasetto mi faranno dire, per fortuna ho fatto quello che ho fatto. Mi ritroverò
ad essere come un pezzo di un puzzle e troverò l’incastro giusto,
indipendentemente da chi penso di avere intorno quel giorno lì, da che treno
credo di aver perso o da che mondo penso avrei potuto avere e invece no.
Poi porto i cani a fare il giro della casa e mi sento come
meglio.
Non ho parole... Molto bello.
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