Quell'un percento lì
Le semplificazioni sono sempre riduttive, spesso
incongruenti, non realiste. Eppure aiutano a rendere l’idea, soprattutto quando
l’idea è difficile da spiegare.
Per cui ecco le mie semplificazioni: credo che la vita sia
un bel novantanove per cento routine, in cui si cerca di non annoiarsi e di
andare avanti senza troppi impicci. La vita quotidiana, quella che ci
aspettiamo di trovare la mattina a colazione. Questo novantanove percento viene, a volte, disturbato dall’un
percento. Io stasera semplifico l’un percento.
Nell’un percento ci sono le emozioni forti, quelle che non
si dimenticano. Quelle belle sono le prime volte: la prima volta che ci si
innamora, la prima volta che si fa un figlio, la prima volta che si fa l’amore.
Sono prime volte che poi quando si cerca di rivivere in qualche modo balordo
deludono un po’. Deludono perché il bello di queste prime volte sta soltanto
nel fatto che sono prime.
La prima volta che ho fatto l’amore, per esempio. Dal punto
di vista, come dire, qualitativo, è stata senza ombra di dubbi una delusione.
Avevo aspettato il momento giusto, assaporando sensazioni ancora mai provate,
immaginavo di vedere i fuochi d’artificio, i cuoricini allineati a arcobaleno.
Mi aspettavo di sentirmi grande, matura. Ci sarebbe stato un prima e un dopo.
E poi invece non è quasi mai così. Dal punto di vista
qualitativo, nel senso puramente sessuale, dico: l’ho fatto in fretta, con uno
che conoscevo da sei ore, che il mese dopo citofonò a casa mia, e io in
fibrillazione risposi, per sentirmi dire che era venuto per mia sorella. Dal
citofono. Eppure la magia della prima volta non l’ho recuperata più. Quella
prima volta venne, come dire, bruciata nel momento in cui fu consumata, sulla
spiaggia. Adesso che sono grande, qualcuno direbbe pure matura, fare l’amore è
diventato più appagante, più intenso. Ma, insomma, non è la prima volta.
Anche per il mio primo parto fu così: non sapevo cosa avrei
provato, e potevo in quella nuvola immaginaria metterci dentro di tutto. Poi ha
fatto male, durò molto più del previsto, Dan finì addirittura al pronto
soccorso per aver mangiato del pollo avariato. Voglio dire, non esattamente
come mi sarei immaginata. Eppure, anche lì, era la prima volta. Non ci sono
cazzi.
Nell’un percento ci sono anche i traumi, anche loro che non
si dimenticano. La parola trauma mi riporta al nanosecondo che trovai mio
figlio Luca sul fondo di una piscina, vestito di tutto punto, viola e apparentemente
morto da un po’. Si tratta di un momento che mi ha sfregiato di uno sfregio
indelebile. Roba di dieci anni fa, roba che so non succederà mai più, perché
adesso Luca non lo porto di fronte a una piscina neanche sotto tortura. Non è
una cosa a cui penso quotidianamente, non è che non dormo per quello che è
successo dieci anni fa, e che poi alla fine è andata bene, visto che Luca,
quindicenne, è adesso di sopra davanti al computer. Ma ci sono piccole cose che
incontro nel novantanove percento della vita che mi riportano a quel momento di
terrore: l’immagine di bimbi piccoli in riva al mare, per esempio; racconti di
gente annegata, la nave all’isola del Giglio mezza sott’acqua, dei film, dei libri.
Insomma, ci sono volte che senza preavviso viene un rigurgito di terrore
assolutamente irrazionale, nel senso che so che Luca è sano e salvo in camera
sua, ma rivivo, in parte, quel trauma.
O quando morì mio padre, ventinove anni fa. Io avevo
quindici anni e lui quarantadue, e diceva da giorni di avere un mal di testa
pazzesco. Ogni volta che a me viene mal di testa e non va via, mi convinco
immediatamente di avere un ictus, e di dover far affrontare ai miei figli e a
Dan il dolore incommensurabile che io, le mie sorelle e mia madre abbiamo
vissuto, il vuoto che tuttora sentiamo tangibile. L’anno scorso, quando ho
compiuto quarantadue anni, è salito il panico, il terrore. Sapevo, so tuttora
che invece non succederà, che la storia non si ripete così ritmicamente. Ma una
punta di terrore mi assale, irrazionale e difficile da cacciare.
La stessa roba mi capita quando penso alla volta, la seconda
volta, che ho saputo che Dan mi aveva tradito, vent’anni fa.
Eravamo ragazzi, cazzoni tutti e due. Avevamo per tre anni
instaurato un rapporto a distanza in bilico, con una certezza quasi assoluta di
non riuscita. Ma poi è andata bene: lui si lauerò e decise di venire a Milano,
passò un anno in un appartamentino squallido in via Macedonio Melloni, e il
nostro rapporto da instabile diventò importante. Si lo so, avevamo vent’anni.
Ma alla fine del suo anno a Milano, decidemmo che non ci saremmo lasciati:
lui voleva tornare negli States per un dottorato, e a quel punto io lo avrei
seguito. Furono mesi difficili: io avrei dovuto licenziarmi, lasciare
l’università, la mia città, i miei amici ma soprattutto la mia famiglia per
seguire Dan, che amavo alla follia. Lui sarebbe tornato di fretta in America per cercare
un appartamento per noi, poi sarebbe stato a Urbino per un mese, per lavoro, e
poi finalmente insieme saremmo andati.
Mesi di euforia, di paure, di sogni. Non faceva che farmi
cartine su cartine dell’appartamento. Era contento, tanto quanto me.
E poi trac: incontra una stronza di Urbino e mi tradisce.
Torna a Milano di fretta e mi dice, Marina, io mi sono innamorato, ma la mollo
per te. Non è successo niente tra noi: giura e spergiura che non si sono mai
neanche toccati. Tutta una roba platonica, ma che la cosa lo aveva spaventato e
era corso da me per dirmi che mi amava, e che era stato un errore.
Io ero distrutta. Non avevo neanche le lacrime per piangere.
Mancava una settimana all’inizio della nostra avventura: tutto quello che possedevo
era stato messo in scatoloni e spedito all’indirizzo del nostro appartamento,
nido d’amore che lui cercava di spiegarmi. Si, forse terrore è la parola
giusta. Non solo il dolore del tradimento, che io non ammetto in nessuna
circostanza, amici o fidanzati o colleghi che sia. Ma il tradimento in questo
preciso momento in cui l’unica cosa da fare era aspettare il giorno della
partenza.
Gli dissi che non sarei partita, e lui mi implorò: continuò
a giurare su tutto il giurabile che si trattava soltanto di una cazzata, che
non era successo niente, ripeteva, mai farei una cosa del genere, mai. Io mi
lasciai convincere dal fatto che non fosse successo niente tra loro: nel
dolore era più facile accettare una sbandata che una sbandata con ciulata
inclusa. Mi sembrava meno importante.
Gli diedi tre mesi di tempo: lo avrei seguito e avrei
cercato di capire dove fosse andato a finire il nostro amore, ma se in tre mesi
non mi convinceva, amen. Ma a lui bastò sentire che sarei andata con lui.
Questo trauma venne superato, nel senso che poi noi andammo a
vivere insieme felici e contenti. Poi due anni dopo, durante una chiacchierata
venne fuori che invece la vecchia storia di Urbino non era stata solo
un’innocente cotta, che il contatto fisico ci fu eccome, per dire.
Come ogni trauma, ogni volta che capita qualcosa che in
qualche modo rimanda a quel momento, quel momento lo si vive con lo stesso
terrore, irrazionalmente. Sofferenze, litigate. Robe. Ma ancora, andammo avanti.
Sono passati vent’anni: tre figli, autismo, sindrome di
down, operazioni al cuore, periodi di disoccupazione, periodi senza una lira. I
traumi a questo punto non si contano neanche più. Io e Dan abbiamo sempre tenuta
alta la nostra bandiera, siamo sempre stati forti, uniti, vicini. Innamorati. E quelle che
ormai sembravano cazzate del passato hanno a poco a poco perso valore: non ci
sono stati momenti che mi avessero fatto rivivere il terrore del momento. Affatto.
Fino a domenica scorsa, quando Claudia, la sorella di Dan,
mi ha chiesto di aiutarla a svuotare i cassetti e gli armadi di sua madre, morta
a ottobre. Le ho dato ovviamente piena disponibilità, immaginando il dolore di
mettere tutti i vestiti di Thelma in sacchettoni della pattumiera.
Eppure Claudia è stata fortissima, piena di dignità, si è
presentata a casa dei suoi e piano piano abbiamo diligentemente piegato i
vestiti appesi nell’armadio e messi via. Poi è stata la volta della
cassettiera. Abbiamo deciso che avremmo buttato via tutto: calze, mutande,
canottiere. Il terzo cassetto l’ho aperto il, e io ho notato in fondo a
sinistra una scatoletta nera, tenuta chiusa da un elastico. La prendo, la
osservo. Sulla scatola, ci sono alcune buste di lettere e una busta imbottita,
di quelle che si usano per mandare cose fragili. Apro la scatola, e dentro vedo
altre lettere. In tutto cinque o sei. Guardo il francobollo: Italia. Guardo a
chi sono state mandate: Dan Canale-Parola. Guardo il mittente: lei, l’urbinate.
Come quando sento di gente morta annegata, come quando sento
di chi ha mal di testa e poi muore, ho sentito la stessa nausea. Claudia mi
guarda e mi chiede. Io le spiego, nascondendo l’orrore. Le buste erano chiuse,
mi sembrava, a parte quella gialla. Quindi neanche Dan aveva mai letto ste
lettere. Claudia mi ricorda l’affetto che mia suocera ha sempre provato per me,
e si commuove il fatto che non avesse mai detto niente a nessuno, neanche a Dan, di queste
lettere. Ha ragione, penso. Ma nessuno mi toglie il pensiero che avessi saputo non sarei qui.
Con il cuore in gola continuo a buttar via sottovesti e
calze sgualcite. Poi è ora di andare. Ci mettiamo le giacche. Velocemente
chiamo Dan, che è nella camera di fianco, e gli dico di andare in camera dei
suoi e aprire il terzo cassetto. Io aspetto in cucina.
Ritorna tre minuti dopo anche lui con l’espressione di
terrore negli occhi. Poi andiamo da Claudia a cena, facciamo finta di niente.
Son tre giorni che sto male. Lo so, come per ogni cosa del
genere, anche questa non è razionale: come so che Luca non morirà annegato, e
che io probabilmente non avrò un ictus nei prossimi due mesi, so anche che è
una roba di vent’anni fa, e di acqua ne è passata sotto i ponti, e che Dan è
innamorato di me, e che è un compagno ideale, roba da baciarsi i gomiti. Lo so.
Ma come quell’un percento delle volte, rivivo e sto male e
faccio fatica a spiegare agli altri, e mi sento una cogliona per rivivere cose
che so non dovrò mai più affrontare. Ma che sono parte della mia storia, e,
come quella volta là sulla spiaggia con il tipo conosciuto sei ore prima, sono
momenti che, se non altro, non fan parte della routine, e lasciano segni,
sfregi. Belli, brutti.
Whatever.
Non rovinarti la vita per cazzate di venti anni fa!
RispondiEliminaSoprattutto se è una cosa che avete già affrontato e per la quale avete già sofferto entrambi.
E poi cosa diavolo c'entra Dan col fatto che quella gli ha scritto a sua insaputa?