un sogno piccolo







Nord Italia. Una città, immagine in bianco e nero di Milano. Nella zona Est, un palazzo costruito nel dopoguerra, nel palazzo nove appartamenti.
Nell’appartamento del quarto e ultimo piano una sala spaziosa, mobili di legno scuro, finestre grandi con le tende bianche, pavimento di marmo coperto in parte da tappeti sobri. Un camino, anche lui di marmo, due divani, una poltrona. All’angolo una televisione non troppo grande. Tanti libri. Un grande tavolo di legno antico, ovale, un pianoforte scordato, con sopra tante fotografie incorniciate con gusto. Poi, dietro l’angolo, una scrivania. Sulla scrivania alcune pipe, tanti fogli, qualche libro. Un pacchetto di Merit e un accendino Bic nero.
Alla scrivania un uomo davanti a un computer.

Ha la piazza, lo si vede entrando, ma i capelli che gli restano, ormai brizzolati, accennano a una lontana capigliatura scura e riccia, ma senza troppi vezzi. Le spalle larghe dentro un golf blu scuro, rigorosamente cachemere, regalo di Natale di qualche anno fa. Il colletto bianco della camicia che viene fuori disordinato, ma chic.

Le mani grosse e affusolate picchiano sui tasti, come se qualcuno stesse dettando una cosa importante, ma poi si fermano. Senza togliere lo sguardo dallo schermo, le mani cercano il pacchetto di Merit di fianco, lo aprono, con un gesto quasi automatico. L’uomo non toglie lo sguardo dal monitor, prende una sigaretta, mentre un pensiero lampo gli passa per la testa: devo scendere a comprarmele. L’accendino Bic accende la sigaretta, che disegna una sottile linea di fumo; parte gli sfiora il viso che gli fa chiudere un occhio, già quasi lacrimoso.
Si appoggia alla spalliera della sedia di legno e cuoio nero comprata anni fa da un antiquario in Paolo Sarpi, insieme con la scrivania, antica anche quella. Il silenzio è rotto dallo scricchilìo del legno della sedia.

Il suo trono.

Lo squillo del cellulare arriva basso, un drin drin normale, senza suonerie inutili. È Giorgio, suo amico e collega ormai da quasi trent’anni.
“Allora?”, risponde, senza neanche dire pronto. Ascolta, sorride, parla. Spegne la sigaretta nel posacenere di rame, quello rotondo danese che avevano regalato a sua moglie una vita fa. Si alza, e parlando cammina e gesticola. Ha un paio di jeans, la pancia, un paio di mocassini bordeaux. Qualche ruga, ma sembra più giovane di quello che è. Un accenno di doppio mento, ma che gli sta quasi bene. È alto, ha le gambe affusolate, e il cavallo dei pantaloni un po’ basso, la cintura ben sotto la pancia. Si accende un’altra sigaretta.

Poi diventa serio, ascolta attentamente. Cerca di interrompere. Poi tocca a lui. Dice di averci parlato lui con Gianni, ma che comunque lo vede stasera, poi lo chiama. Un ciao veloce e il cellulare è appoggiato sulla scrivania.

Prende il lungo corridoio, gira a sinistra e entra in cucina. Apre il frigo e finisce a canna una bottiglia d’acqua minerale. Appoggia il vuoto a rendere di fianco al lavandino.

Sua moglie è seduta al tavolo di legno rettangolare, ha davanti la Repubblica, che legge con gli occhiali a mezzo naso.
“Pazzesco quello che sta succedendo a Lampedusa”, dice lei senza togliere lo sguardo dalla pagina. In piedi dietro di lei, lui dà un’occhiata al giornale e legge il titolo dell’articolo.

Poi le mette una mano sulla spalla, e si china. Le da un bacio sulla testa.
“Allora, stasera vengono Gianni e Paola”, dice lui. “Si, pensavo di fare un bell’arrosto di maiale”, risponde lei chiudendo il giornale. Si alza e si gira verso di lui.

Lui le sorride, e lei gli aggiusta il collo della camicia. “Vado a comprare le sigarette. Serve qualcosa?”, dice lui incamminandosi verso l’ascensore. Lascia in cucina una scia di colonia, anche quella regalo di Natale di suo nipote Giacomo.


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