Vada per Chopin
Ecco, mi dico dopo aver finito
il caffé: oggi scrivo. Basta trovare cosa scrivere e sono a posto. Manco fosse
facile.
Potrei scrivere dello
strano pensiero che mi è venuto venerdí, quando io e Dan abbiamo deciso di non
andare in campagna e passare invece un finesettimana qui, con gli amici. Ho
pensato, chinandomi sul letto per farlo, che chissà, magari la decisione di
stare qui cambia il nostro destino. Metti, per sfiga, che le stelle del
firmamento responsabili della nostra storia avessero stabilito che andando a
Becket avremmo fatto un incidente, o che ci sarebbe successo qualcosa. Ecco,
rimanendo a casa abbiamo senza saperlo evitato qualcosa di brutto. Pensavo, mentre mettevo i cuscini al loro posto: ce
ne sono tante di situazioni nella vita in cui si dice, se solo avessi fatto
così, se solo non fossi andata…. Potrei continuare a scrivere, raccontando di
quella teoria di cui Dan aveva sentito parlare tempo fa, che dice che ogni
possibilità di ogni azione succede veramente, e crea altre realtà per noi
inaccessibili. Raccontandola mi aveva fatto l’esempio di quando anni fa aveva
fatto un incidente in moto e per tre centimetri aveva evitato un palo: ecco in
un’altra realtà il palo lo aveva beccato e c’era rimasto secco. Una realtà
senza Dan. Mi sembra però una roba triste da scrivere. Lasciamo perdere.
Potrei scrivere di
come io abbia passato gran parte del mio sabato mattina a riordinare gli
scaffali in camera di Luca e come attraverso ogni oggetto o fotografia trovata,
abbia rivissuto piccoli momenti di questi quindici anni inaspettati: quando era
piccolino e gli insegnavamo a salire le scale mettendo il suo gioco preferito
sull’ultimo gradino, mentre lo guardavamo mettercela tutta per arrampicarsi e
schiacciare il pulsante colorato e sentire per la tremillesima volta la
canzoncina. Oppure del suo periodo dedicato esclusivamente alla musica dei
Police, quando non faceva che guardare un video di Sting o quelli vecchi dei
tre ragazzi biondi che cantavano tutto Sincronicity. Ma, insomma, non voglio
neanche star sempre lì a rompere le balle con ‘ste storie qui.
Allora, pensavo mentre
pesavo i pro e i contro di un altro caffé, di scrivere del mio amico Lou, che
quindici anni dopo i suoi due trapianti, uno di fegato e uno di reni, è stato
portato d’urgenza all’ospedale perché il rene che gli aveva donato il padre sta
dando segni di rigetto. Potrei raccontare delle mille cene che ci preparò anni
fa, quando vivevamo in quella casetta in campagna, e avevamo appena scoperto di
tutto quello che aveva Luca, e che mentre i genitori di Dan se ne stavano a
casa a guardare i Red Sox, Lou veniva da noi, cucinava, e ci faceva parlare a
lungo delle nostre paure, ricordandoci sempre anche dei lati positivi delle
cose. Ma insomma, anche lì, non è che io posso sempre parlare di robe brutte.
Ah già, mi dico, potrei
parlare del pianoforte che abbiamo appena comprato: di come Emma di anni
cinque, abbia sulle spalle la responsabilità di seguire le orme di generzioni
di donne della mia famiglia che hanno studiato e apprezzato il piano. O della
mia ricerca in cantina di tutti gli spartiti che vent’anni fa portai qui da
Milano: quelli di teoria che hanno ancora le scritte della signorina Conforti,
nostra maestra di piano di quando eravamo piccole, che ci ricordano di fare il
solfeggio bene, e di studiare prima la mano destra poi quella sinistra. Gli spartiti
ormai ingialliti, quelli della mia nonna, quando era giovane lei e suonava nei
rari momenti di tranquillità. Potrei anche scrivere della zia Sofia, la zia di
mia nonna, di Lipsia ma trasferitasi in Italia. Aveva abitato tutta la sua vita
con sua sorella Edvige: tutte e due donne della fine dell’Ottocento, cresciute
a botte di puntocroce e pianoforte. Mia nonna mi raccontava che la zia Sofia andava
a letto e invece di un romanzo si portava gli spartiti da leggere, e che la
musica era la sua passione. È proprio per tutti questi racconti che dodici anni
fa decisi di chiamare mia figlia Sofia. Ecco, mi dico, questa non è una storia
triste, potrei condividerla, magari strappare un sorriso a chi legge.
Poi scarto anche questa:
ci sono troppi dettagli che non conosco bene sulla zia Sofia, e poi non mi va
di elogiare la vita di una donna che non ha fatto un cazzo nella vita. Il mio
spirito femminista mi porterebbe a fare commenti inappropriati, estemporanei.
Generalizzazioni quasi ovvie e senza ormai alcuna importanza.
Mentre penso, mi accendo
una sigaretta. Aspirando, sento Giovanni e Cecilia parlare a voce alta mentre
si preparano per portare i loro due bimbi all’asilo. Ieri è venuta Cecilia a
trovarmi con il suo piede ingessato, e davanti a un té alla menta mi ha detto
che loro se ne tornano a Milano. A casa. Le ho detto subito che vanno bene.
Abbiamo condiviso le nostre difficoltà di essere straniere, della stanchezza
mentale di dover sempre capire come funzionano le cose, le relazioni
interpesonali: come parlare alle maestre, come gestisi un’amicizia, come tirar
su i figli in modo che loro invece si sentano parte di questa cultura che non è
la nostra, ma allo stesso tempo dare loro le basi per vivere a proprio agio
anche a Milano. Aiutarli a sentirsi a casa sia qui che lì. Dopo vent’anni
faccio ancora fatica a capire certe situazioni che invece a casa affronto senza
pensarci. È stancante, le dicevo. E mentre le parlavo mi saliva un’invidia da
gelato quando ero piccola, che io lo finivo in fretta e invece i miei amici lo mangiavano
lentamente, gustandosi ogni leccata manco fosse l’ultimo gelato della loro
vita. Poi ieri sera a cena dicevo a Dan di come io sia stanca di vivere
lontanto, con tutti i disagi dell’essere straniera, compresa soprattutto la
nostalgia che a volte mi toglie il fiato.
Le voci di Giovanni e
Cecilia mi rassicurano: è bello sentire parlare italiano dalla finestra. Mi da
come la sensazione di non essere poi tanto lontana. Anche se sento, dopo aver
fatto un po’ di attenzione, che sembrano tesi, probabilmente perché sono in ritardo
e uno dimentica una cosa, i bambini non cooperano e ti fanno arrivare sempre
tardi al lavoro.
Butto la sigaretta nel
water e tiro l’acqua, ritorno al computer e rileggo quello che ho scritto
finora.
Oggi non è cosa, non mi
viene niente. Magari domani, prima di andare a insegnare mi verrà l’idea e la
butterò giù ancor prima di aver girato lo zucchero nel caffé. Per adesso mi
vado a riprendere quel notturno di Chopin che avevo inziato a studiare nel ‘91. Quello
che suonava la mia nonna.
Bellissima come sempre Marina...you beautifully reminded me of my childhood Für Elise music score from 20 years ago, already yellow and worn-out today but still has my German piano teacher's hand-writing (in pencil) that read "right hand only" ... nostalgia and memories are what give our writing its poignance and you have a beautiful style and voice...thank you for sharing it with us. Yas. Vancouver.
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