Una bella gita
Tra qualche giorno andiamo a Vieques. Io, Dan e i bambini. Ma dov’è Vieques, si chiederà chi sta leggendo. È un’isoletta a un’ora di traghetto da Porto Rico, che è una specie di colonia americana.
Vieques è bellissima: per anni era stata utilizzata come base
militare americana e dunque non era accessibile al turismo. Una delle poche
cose positive di questa occupazione yankee è che, a differenza delle altre
isole caraibiche, questa non è stata contamintata da villaggi turistici,
americani cicciotti e rossi dal sole, ubriachi alle tre del pomeriggio. Vieques
sembra essere rimasta agli anni Cinquanta, con le sue macchine vecchie, con il
supermercato che puzza un po’ di carne marcia, le spiagge da sogno con le palme
e la sabbia bianca e il mare azzurro che più azzurro non si può, con i cavalli
selvatici (si dirà così dei cavalli di Vieques?) che si riposano a decine sotto
gli alberi.
Ci sono delle ville stupende, fatte costruire dai pochi
americani che si sono accorti dell’isola guardando bene bene la cartina della
zona, che vengono affittate da altri americani come noi, che cercano posti
lontani e desolati. Le ville hanno tutte la piscina, la terrazza che guarda sul
mare, i divani a fioroni gialli in sala, la tivvù.
Lo so perché questa non è la prima volta che andiamo a
Vieques, e che affittiamo una villa con piscina degli amiercani ricchi.
C’eravamo andati anni fa, quando Luca aveva quattro anni e Sofia due e mezzo.
Eravamo noi e mia sorella Renata con suo marito, Mario. E da quella volta ho
giurato che non ci avrei messo più piede.
Quella mattina, come tutte le altre, facevamo colazione
sulla grande terrazza che dava sul mare: io e Renata avevamo appena finito il
caffé e stavamo chiacchierando; Mario stava leggendo De Carlo, Dan faceva la
doccia, Sofia piccolina dormiva sul lettone. Luca era lì, con noi, a guardare
la piscina che stava appena sotto.
Sentita Sofia piangere, corsi in casa, per paura che
svegliandosi cadesse dal letto. Nel frattempo Renata cominciò a sparecchiare.
Sofia frignava, e io mi coricai di fianco a lei per farle due coccole. Prima di cambiarle il pannolino, decisi
di cercare Luca e lavargli i denti. Andai in sala, non c’era, in cucina
neanche, in bagno niente. Avete visto Luca, chiesi un po’ in pensiero. Cercai
dappertutto, e poi mi venne un attimo di terrore: la piscina. Non osavo andare
a vedere, ma sapevo di non avere scelta. Mi affacciai alla terrazza e vidi il
suo corpo apparentemente morto abbandonato nel mezzo del blu dell’acqua. Tirai
un urlo che non credevo di avere avere nella mia gola e mi precipitai dalle
scale. Raccolsi, come una mosca morta, il corpo di mio figlio che era già
vestito coi suoi pantaloncini azzurri e la maglietta verde. Aveva ancora gli
occhiali. Il viso era blu, gli occhi vitrei mi fissavano senza vita. Lo
appoggiai al lato della piscina, e nel frattempo Dan e Mario si precipitarono
per cercare di far qualcosa. “ Call 911!” urlava Dan mentre cercava di farlo
respirare. Niente. Luca rimaneva lì, come un pesce morto. Mario cercava
disperatamente anche lui di fare qualcosa. “Luca! Come back! Come back!” urlava
Dan disperato. Io corsi in cucina e scivolai per terra, mi rialzai e feci il
numero dell’ambulanza: occupato. Lo rifeci cento volte e finalmente una voce
rispose in spagnolo. Io cercavo disperatamente di spiegare dove si trovava la
casa: è la terza villa bianca dopo aver girato alla seconda a sinistra e poi
ancora a destra. Insomma, non capivo un cazzo. “Luca come back!” sentivo Dan
strillare, ormai quasi senza voce. Io spiegai, ho bisogno di un’ambulanza,
adesso subito. Renata era con
Sofia, che urlava anche lei, e
cercava di calmarla. La portò di sopra, per stare con lei con la dolcezza che
solo Renata è capace di emanare.
Poi sentii tossire, prima poco e poi tantissimo. Luca è
vivo.
Dan lo portò in camera da letto. Io ero bagnata fradicia e
Luca anche. Lo presi in braccio e lo coricai di fianco a me. Piangevo. Il suo
corpo emanava un odore stranissimo, credo che sia l’odore della premorte.
Piangeva anche lui.
Dopo pochi minuti arrivò l’ambulanza. Me lo presero dalle
braccia, e lo coricarono sulla lettiga. Dan salì con loro, e io e Mario seguimmo
l’ambulanza che urlava di farli passare. In quell’ambulanza, Luca per la prima
volta in vita sua parlò: ”Mummy! Daddy! Billy, billy!”. Dan lo consolava, gli
diceva bravo Luca, bravo che parli!
Arrivammo in un piccolo ambulatorio, dove un medico ci
aspettava. Disse in ingliese di voler trasportare il bimbo in un ospedale di Porto
Rico perché potrebbe esserci ancora dell’acqua nei polmoni, e lui non si voleva
prendere la responsabilità, considerato anche che il bimbo ha la sindrome di
Down e quindi avrebbero potuto esserci possibili problemi respirtaori.
Io ero ancora fradicia, e decidemmo che Dan sarebbe andato
con Luca, io e Mario saremmo tornati a casa, io mi sarei rivestita, preso dei
vestiti per Luca, dei soldi e li avrei raggiunti. Intanto era arrivata la
polizia, che mi fece un sacco di domande. L’infermiera chiamò d’urgenza un
aereo per trasportare Dan e Luca all’ospedale.
Baciai Luca, e io e Mario tornammo a casa. Mi affrettai a
cambiarmi, preparai una borsa, corsi all’aeroporto e chiesi di salire sul primo
aereo. “Lei è la madre del bambino annegato in piscina?” Si, risposi a quello
dei biglietti, e mi accorsi d’un tratto che tutti mi guardavano con la passione
con cui si guarda una madre che ha appena perso un figlio. Mi sedetti ad
aspettare e immaginai la bara bianca, seguita da migliaia di persone. I fiori,
lo strazio di mia madre, noi che tornavamo a Brooklyn e dovevamo liberare la
sua cameretta, dare via i vestiti, i suoi giochi, tutto.
Presi l’aereo che in dieci minuti mi portò a Puerto Rico, e
chiesi a un tassista di fare il giro degli ospedali (quattro): sto cercando mio
figlio e mio marito, spiegai. Non parlo spagnolo e lui non parlava inglese, ma
capì subito che si trattava di una cosa serissima. Mi disse, credo, che avrebbe
pregato per me.
Arrivai, li vidi subito: Luca aveva la flebo, dormiva. Dan
sembrava invecchiato di vent’anni. Arrivò la dottoressa e disse che il bimbo
sarebbe rimasto in osservazione per qualche giorno. Sembrava preoccupata ma
disse, siete stati fortunati: trenta secondi in più e avrebbe avuto seri
problemi neurologici, un minuto in più e sarebbe morto.
Quella notte io e Dan non dormimmo, ma passammo le lunghe
ore a piangere, a fissare Luca che invece dormiva tranquillo, e ad
abbracciarci.
Dopo qualche giorno tornammo alla villa. Io mi affacciai
alla terrazza, guardai la piscina, e corsi in bagno a vomitare. Luca invece
voleva andare a fare il bagno.
Tra qualche giorno andiamo a Vieques. Abbiamo affittato per
una decina di giorni una villa di una famiglia di ricchi americani: una bella
villa bianca, con la piscina e la terrazza che guarda sul mare.
E poi che Dio ce la mandi buona.
carissima Marina, i suoi racconti mi emozionano ogni volta: lei è davvero una persona speciale e ancora adesso mi chiedo come sono arrivata a scovare lei e il suo blog, grazie grazie da tiziana
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