Intercity, uova e roba del genere


 Facendo due conti sono dieci anni che non metto piede a Bordighera. L’ultima volta che sono venuta, non avevo neanche nell’anticamera del cervello di avere una terza figlia, per dire. E invece venerdì pomeriggio ho preso il mio bell’intercity, armata di due uova sode e dei mirtilli che la mia mamma aveva preparato, e sono partita, con la mia bimba di cinque anni, quella che manco mi sognavo l’ultima volta, appunto.
Il treno era strapieno, ma, grazie al consiglio saggio della mamma, avevo prenotato, per cui io e Emma avevamo il nostro posto nella quarta carrozza, seconda classe. Nello scompartimento c’era una coppia straniera (forse tedesca, o norvegese, o roba del genere), e una signora, che non ha mai detto una parola, ma che si leggeva una guida di San Pietroburgo, anche se l’ho vista con la testa ciondolante un paio di volte. Mi dicevo: ma la Russia è a est, non a ovest. Appena prima che il treno si lasciasse alle spalle l’indimenticabile stazione centrale è arrivato un signore, forse della mia età, con una camicia a righe tutta sbagliata.
Io volevo parlare italiano, far capire a tutta la combricola che io di intercity me ne intendo, ma Emma insisteva a parlarmi in inglese, e non aveva nessuna intenzione di sforzarsi a capire quello che le dicevo in italiano. Tanto che il norvegese, per parlare con me, mi diceva le robe in inglese. Che nervi. Vorrei mai che girasse voce nelle ferrovie dello Stato che mi monto la testa perché parlo inglese. Niente di peggio.
Durante i nostri interminabili viaggi a Bordighera, mio nonno diceva che fino a Genova non si mangia, mentre mia nonna già a Pavia cominciava a dire quasi quasi… Emma si è sparata il primo uovo a Tortona: mio nonno sarebbe fiero di lei. Non sarà Genova, ma almeno è dopo Pavia.
Arrivati alla stazione di Bordighera, abbiamo dovuto affrontare un vento imperioso e arrabbiato. Ho subito pensato che fossero gli spiriti della mia famiglia bordigotta che mi sgridavano per aver fatto passare così tanti anni. Il mare era ancora più incazzato, roba da bandiera rossa la trionferà.
Fabio, il mio cugino preferito che è qui ormai da giorni, ci è venuto a prendere e dopo un forte abbraccio ci ha portate a casa nostra. La casa Ronco. Lui sta alla destra del pianerottolo, e io alla sinistra. Quando mia madre era piccola, era un tuttt’uno, ma poi negli anni Cinquanta mio nonno decise di dividerlo (facendo lui il progetto) per creare un piccolo appartamento per lo zio Lodovico, fratello minore di mia nonnna. La Casa Ronco è il posto in cui è nata la mia nonnna, e dove ha passato tutta la sua infanzia. Parlo di robe dell’Ottocento.
Per noi è sempre stata la casa al mare, e questi due appartamenti, che qualche anno fa mia mamma e sua sorella si sono divise: Milena, madre di Fabio, che ha un marito e anche più soldi, ha preso l’appartamento che era dei miei nonni, e mia madre quello dello zio Lodovico, erano per noi una reggia. Io e Fabio siamo sempre stati insieme da quando siamo nati: asilo, elementari e medie nella stessa classe, e poi anche dopo la scuola eravamo sempre insieme. Inseparabili più dei fratelli siamesi. Sempre tranne una parte dell’estate, quando lui andava in giro per l’Europa in roulotte con i miei zii e un gruppo di amici, e noi invece venivamo a Bordighera.
Rientrare in questi appartamenti dunque, per me, e molto meno per lui, vuol dire tuffarmi in un oceano di ricordi: immagini, odori, sapori, rumori, tutto quello che i miei sensi possono offrire. Si sveglia dentro di me come una sinfonia, proponendo immagini vecchie eppure confortanti. Deliziose.
A partire dal portone, che è sotto alcuni portici proprio sulla via Aurelia, sempre piena di rumore di macchine, motorini taroccati e ambulanze (Anna dice che ER, medici in prima linea, in confronto non è un cazzo). Il portone è di legno scuro, con una maniglia rotonda che non gira. Infilo la chiave e trac, entro nell’odore di quando ero piccola. È un odore dolciastro, che entra nelle mie narici in modo prepotente, strappando al mio cervello immagini di mio nonno che sale lentamente, o mia nonna che si ferma al primo piano a vedere come crescono le piante grasse, e ad aprire un po’ la finestra. Di fronte la porta dell’armadio dove c’è il bendiddio che mio nonno aveva fatto con le sue mani, inclusa una casetta delle bambole che nessuna bambina al mondo pu`ò neanche immaginarsi di avere.
I gradini diventano triangolari, per accomodare la curva prima a sinistra e poi, dopo il primo pianerottolo, a destra. Eccoci al nostro pianerottolo: al centro c’è l’armadietto di legno dei contatori della luce (probabile progetto di mio nonno) e il pavimento è  anche lui di marmo chiaro, come le scale. Una porta di legno a destra e una a sinistra. Apro con una certa commozione  quella di sinistra, sperando di trovare pochi cambiamenti, per il gusto di sentirmela ancora un po’ mia. E infatti anche se il divano è cambiato, e la libreria propone un azzurro scuro, tutto è rimasto come dieci anni fa. La sala è piccola, con una finestra (vetri e persiane nuove), e un pavimento a piastrelle giallo ocra decorate. La cameretta ha un letto matrimoniale, mentre l’ultima volta aveva un letto a castello più un lettino singolo. Sta meglio così. Mi sarebbe piaciuto avere il letto matrimoniale quando ci venivo coi morosi. Ma transit. La cucina, uguale. C’è il tavolo bianco che era della mia bisnonna, oggetto dei miei incubi per anni. Infatti, per tutta la vita avevo sentito dire che quel tavolo è antico, speciale, pieno di ricordi; ma una sera che ero ragazza avevo cuccato dei ragazzi in passeggiata mare e li avevo portati a casa, e uno di loro con il cavatappi aveva ci aveva inciso il suo nome. Io, che ero con mia sorella Renata, quando la mattina dopo me ne sono accorta, mi sono vista la mia vita pasare davanti agli occhi, e, terrorizzata, una volta a Milano avevo chiamato mio cugino Piero (di anni venti più di me) e lo avevo implorato di andare a far qualcosa. Lui lo aveva cercato di nascondere grattando e riridipigendo, cercando di nascondere, ma sapevo che sarebbero stati guai. Che infatti furono. Ho guardato subito in alto, per vedere se c’erano ancora tracce dell’inchiostro del polipo che il mio amico Giuliano aveva usato per fare il risotto diceimila anni fa (non c’è).
Il tavolo mi ricorda anche il pranzo in cui mia madre mi ci legò le gambe, perché insistevo ad appoggiare le ginocchia al bordo mentre mangiavo. E mi ricorda i compiti delle vacanze, da fare prima di andare in spiaggia. Mi ricorda le colazioni, i pranzi e le cene di milioni di estati passate lì, con mia madre che anche se eravamo in vacanza sembrava stressata e i miei nonni nell’appartamento di fianco, che facevano il pisolino al pomeriggio e non potevamo tirare l’acqua del cesso per paura di svegliarli.
È tutto lì, in quei cinquanta metri quadri di casetta. Poi c’è la casa dei nonni, più spaziosa, e anche più piena di ricordi: il tavolo rosso della cucina lunga e stretta, su cui la nonna ha tirato col mattarello anni di pasta per la torta verde, o per la pisciarà (la pizza locale), o fatto gnocchi di patate. La sala col tavolo di legno scuro rotondo, su cui ho imparato a giocare a scala quaranta e guai a incartarsi, e le due poltroncine, e la televisione e il divano eil caminetto mai usato. Fabio ha cambiato la posizione dei mobili, e per un attimo mi sono sentita  come se avesse fatto un sacrilegio, e invece bravo lui che non è così attaccato a ‘ste cose del passato che invece a me mi sembrano una roba enorme.
La mattina dopo, armate di costumi e asciugamani per la spiaggia, io e Emma siamo andate dal Carlo Vernier, padrone da millenni dello stabilimento Vernier, a chiedere un ombrellone e due sdraio, e lui mi guarda e mi fa: ‘Ma te sei una Viola’. Mi gaso che mi ha riconosciuto, mlagrado i chili in più e gli anni spalmati sul mio viso. Mi manda da sua sorella, la Bruna, in spiaggia. Anche lei mi guarda e mi abbraccia, con quegli occhi che sembra sempre un po’ triste. Mi da l’ombrellone numero trenta e mi dice, che bello vederti, quanti anni.
Inizia così la mia vacanza qui, nella Bordighera dei mei dieci, qunidici e vent’anni, piena di fidanzati estivi, scottature, Vasco Rossi, partite a scala quaranta col nonno, bagni, serate che si arrivava a casa troppo tardi, telefonate in cabina la bar Mantova, pranzi a pane e pomodoro.
Mettendola a letto, stasera Emma mi chide, in inglese of course, l’anno prossimo ritorniamo? Adesso vediamo, le dico masticandomi la mia maliconia.

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