185 Ocean Avenue, Brooklyn, NY
Sono cinque anni che Dan non mette piede a Brooklyn. Da quella
volta che diede fuori di matto prima di traslocare qui, a Cambrdige.
Ci eravamo trasferiti a Brooklyn da Boston da due anni, e
ci sentivamo finalmente economicamente solidi abbastanza da pensare di comprar
casa.
Ne andammo a vedere duemila, tutte nelle zone meno
abbienti, dove però ci sono le famose brownstones, case di mattoni su tre
piani, tipo film di Spike Lee, per intenderci. Molte avevano ancora tutti i
dettagli di legno intarsiato del secolo scorso, scalinate di marmo che proponevano
delle curve morbide, un parquet anche lui intarsiato, finestroni, camino in
ogni camera da letto e nel salone, enorme. Al primo piano c’era spesso una
porta che portava a un giardinetto, che per una città come New York è oramai un
lusso quasi innominabile.
Le zone (Bed-Stuy, Clinton Hill, Stuyvesant Heights) erano
poverissime, i palazzi scheletri abbandonati con ancora attaccati i rimasugli
di tempi di gloria; gli abitanti, soprattutto neri, parevano stanchi, come se
si fossero rassegnati a dover vivere nella misera: spaccio in ogni angolo,
giardinetti e case abbandonate, negozi puzzolenti che vendevano cipolle vecchie
e prodotti scaduti. Eppure, ci assicuravano gli agenti immobiliari, era
soltanto una questione di tempo: come la bellissima Park Slope, dall’altra
parte della città, anche queste
zone sarebbero state scoperte da chi aveva soldi, le case sarebbero state
ristrutturate, i neri si sarebbero spostati verso East New York o in altre zone
povere della città. Decidemmo di cercare altrove, thank you very much.
Una delle gemme di Brooklyn è Prospect Park, fratello
gemello di Central park, nella upperside dall’altra parte del ponte. Tale gemma
divide in maniera netta le zone ricche da quelle povere. Da una parte c’è Park
Slope, con i suoi supermercati che offrono soltanto prodotti organici, le sue
case carissime, il suoi negozietti di piccoli artisti, caffé alternativi,
originali, con tanta bella gente. È adiacente a Brooklyn Heights, la zona tra
le più esclusive della città, ai piedi del ponte di Brooklyn. Da lì si può
vedere Manhattan come ce la fanno vedere nei film, con i suoi grattacieli, le
sue luci, la sua bellezza imperiale.
Dall’altra parte del parco invece ci sono Crown Heights, popolata
in parte da ebrei hassidici e in parte da caraibici, mentre East Flatbush e Prospect
Leffert Gardens, (o PLG) sono
quasi interamente zone caraibiche oramai da decenni. Come Park Slope e Brooklyn
Heights, queste zone sono dominate da palazzi fatiscenti, con le loro gradinate
che arrivano al portone di legno scuro, enorme, che invita ad entrare in case
immense, tutte a tre piani, con legno intarsiato a destra e a manca, i bagni
con la vasca antica di marmo, con i piedi a forma di piede di leone, con i
parquet, il giardino. Erano state zone riccche il secolo precedente, grazie
anche allo stadio dei Dodgers, la squadra di baseball di Brooklyn, che ora è
stato rimpiazzato da un enorme palazzone di case popolari. Le arterie
principali di queste zone sono Flatbush avenue (che attraversa gran parte della
città e arriva direttamente al ponte di Manhattan), e Ocean avenue, che
costeggia il parco e che arriva fino a Coney Island.
PLG ci era piaciuta subito; chi ci abita è gente povera,
ma dignitosamente fiera, i negozi offrono scelte limitate ma passabili, il
parco è spettacolare, la metropolitana, la linea Q , fa tre fermate a Brooklyn
e arriva a Chinatown in 15 minuti; i prezzi delle case alla nostra portata.
L’agente immobiliare, una ragazza tedesca sposata con un
messicano, ci diede appuntamento al numero 185 di Ocean avenue: una casa in
mattoni con il giardino davanti, esattamente di fronte al parco. La avevano
messa in vendita i coniugi Smart, che ci abitavano ormai da più di vent’anni, e
ora che i figli (campioni olimpionici di scherma) erano in giro per il mondo
con le loro spade, era arrivato per loro il momento di trasferirsi in una casa
più piccola.
A me non piacque per niente: l’entrata mi sembrava
piccola, con un salone sulla sinistra e nient’altro, solo una rampa di scale
che portava al corridoio subito prima della cucina, che era degli anni
Cinquanta, assolutamente da rifare, i bagni vedi sopra. Il secondo salotto,
quello di sopra, anche lui con il suo camino in marmo, però, era bellissimo, e
anche l’enorme sala da pranzo. Le camere da letto al terzo piano erano spaziose
e belle. La casa aveva due verande: una di fronte, dirimpetto al parco, e una a
cui si poteva accedere dalla cucina. Aveva anche un piccolo appartamento che
avremmo potuto affittare, e due garage. Gli Smart, per arrotondare le entrate,
affittavano ad alcuni vicini tre spazi auto che avevano ricavato dal largo
spiazzo erboso di fianco ai garage. C’era anche un enorme seminterrato, che
loro avevano adibito a palestra.
Di fianco c’era un’altra casa, anche lei di mattoni,
ovviamente costruita nello stesso periodo, divisa dal 185 da una stradina privata
che portava ai garage: due a sinistra per il 185 e due a destra per il 189. Le
due case condividevano questo spazio, e il cancello di ferro battuto verniciato
di nero che chiudeva il passo carraio.
Dan, appena uscimmo, disse: perfetta. Io volli andare a
vederla ancora un paio di volte prima di dire va bene.
Facemmo il trasloco nell’ottobre del 2001, quando l’aria
della città puzzava ancora di morte e di macerie. La sera prima del trasloco
andai da sola nella casa, che era vuota, e mi coricai sul pavimento della sala,
cercando di sentirmela mia. Cominciai poi a mettere via piatti e bicchieri,
misi alcune lampade sparse per casa. Più ci stavo più mi innamoravo di quei
muri, di quella casetta che faceva tenerezza. Prima di fare il trasloco,
avevamo assunto Peter, un uomo grande e grosso giamaicano che ci aveva detto
essere idraulico e che avrebbe fatto dei lavori nel bagno. Da quasi subito
capimmo che non aveva la più pallida idea di quello che stava facendo, e
passava i pomeriggi nella casa vuota con due suoi amici a bere la birra mentre
cercavano, tutti e tre, di capire come fare a cambiare la vasca. Finalmente
avevano finito, lasciando bottiglie e sporcizia dappertutto. Mi misi subito a
pulire anche il bagno.
Qualche ora dopo, quando uscii di casa per andarmene,
venne a presentarsi il vicino, Tom. Era più giovane di me di almeno cinque
anni, e (forse perché malgrado gli mancasse un dente davanti aveva un certo
fascino) mi ricordò vagamente Chet Baker. Mi disse subito che bisognava chiudere
il cancello prima di parcheggiare nei garage, perché altrimenti i suoi cani,
tre, potevano scappare e anche perché poteva entrare qualcuno mentre
parcheggiavo. Lui aveva vissuto in quella casa tutta la sua vita, e ne aveva
viste di ogni. I suoi genitori gliela vendettero per un dollaro qualche anno
prima, quando decisero di trasferirsi nel New Jersey. Tom mi raccontò che aveva
fatto la scuola d’arte a Brooklyn, e che adesso viveva con la sua compagna, una
ragazza di Tokio che era a New York per lavoro e che lui chiamava ‘my chicken’.
Aveva un’aria interessante, accentuata dai suoi occhiali
grandi con la montatura di plastica trasparente, ma si capiva che era
preoccupato di questo cambiamento, che si era creato negli anni un sistema ben
preciso, fatto di regole e idiosincrasie che voleva che noi conoscessimo e
seguissimo alla lettera. Mi aveva messo un po’ di soggezione il suo modo
gentile eppure severo di presentarsi e di dirmi da subito cosa fare.
Parlammo per una decina di minuti, e poi tornai a casa a
finire gli scatoloni. Raccontai a Dan di aver incontrato il vicino, che mi
aveva inquietato un po’ ma sembrava gentile.
Il giorno dopo arrivò un camion enorme che trasportò la
nostra vita dalla bellissima casa che affittavamo da due anni a quella nuova
con la cucina anni cinquanta e il vicino strano.
Lui, Tom, si rese da subito disponibile ad aiutarci a fare
i lavoretti, tanti, che la casa richiedeva. Era un periodo che non lavorava, e
in casa sapeva fare di tutto. Noi per ringraziarlo, lo invitavamo spesso a cena
e gli compravamo casse di vino e di birra, che lui accettava un po’
timidamente. Ci aveva fatto conoscere Buzz, un uomo sulla cinquantina che
abitava lì vicino. Buzz aveva i capelli e la barba lunghi, camminava un po’
dondolando, e si capiva che aveva dei problemi di natura psichica. A prima
vista sembrava un homeless, e parlava in continuazione di cose che non sempre
avevano senso logico. Tom gli era diventato amico e lo aveva spesso aiutato,
invitandolo a casa sua e pagandogli da mangiare. Spesso lo sfruttava anche, e
non sempre lo trattava con rispetto. Ma questo atteggiamento sembrava far parte
della dinamica del loro rapporto, e Buzz non sembrava particolarmente sorpreso.
Con l’andare degli anni Buzz divenne un nostro caro amico: passava tutte le
sere da noi, e si sedeva sul divano a raccontarci di una vita balorda, sempre a
i margini della società. Per lui noi diventammo una famiglia, un posto sicuro
dove poteva sempre trovare un piatto caldo e un po’ di umanità. Finì, negli
anni, a rompere la sua amicizia con Tom e adottare noi. Fu una persona
essenziale della nostra esperienza al 185 di Ocean Avenue.
Una sera che tornavo da scuola (allora frequentavo
Brooklyn College, dove studiavo sociologia) incontrai Saki, la compagna di Tom,
che mi disse che sarebbe tornata a Tokio. “Tom è pazzo” mi disse. “Voi non
avete idea, ma è veramente pazzo. Io non ce la faccio più”. Anche Buzz
continuava a dircelo, ma detto da Saki ci fece un certo effetto.
Rimasi sorpresa dalla sua decisione, ma soprattutto dal motivo: Tom da subito
ci era sembrato diverso, eccentrico. Aveva un’energia strana, e mi ricordo di
aver detto a Dan, “Tom è uno bravo e buono, ma mi sa che se si dovesse non
essere d’accordo su qualcosa con lui per qualsiasi motivo, diventa una bestia”.
Avevo sempre avuto quest’idea, e adesso che Saki mi aveva detto che era pazzo,
cominciai a preoccuparmi un po’.
Vicinato a parte, vivere nella nostra casa ci piaceva
molto. La avevamo arredata come piaceva a noi, avevamo rifatto la cucina e i
bagni. Avevamo studiato ogni angolo e sfruttata tutta la bellezza, seppur
decadente, della casa. Avevamo colorato tutti i muri con rossi, gialli, verdi
forti. Le avevamo dato una personalità che rifletteva il nostro entusiasmo, la
nostra felicità di appartenerla. Per la prima volta in tanti anni di traslochi,
ci sentivamo finalmente a casa.
Avevamo iscritto Sofia, che aveva due anni, all’asilo alla
fine della strada, e conosciuto tante famiglie della zone con cui diventammo
amici: Liz e Russ, Jacqueline e Stephan, Martina e David, Chris e Lara. Avevano
tutti bimbi dell’età di Sofia, alcuni erano americani e alcuni europei
trasferiti qui, come me. Avevamo tante cose in comune e creammo con loro una
vita sociale molto intensa e divertente.
Dan cominciò a scrivere un blog su PLG, in cui denunciava
delle noncuranze del comune, che lui attribuiva al fatto che fosse una zona
povera, e attrasse televisioni locali e abitanti della zona, con cui si
intavolarono belle discussioni e iniziarono interessanti progetti.
Io continuavo i miei studi e mi occupavo dei bimbi, che
allora erano solo due. Facevo tanto per la scuola di Sofia, che era una
cooperativa gestita dai genitori e dunque con tanto da fare. Mi occupavo anche
tanto di Luca e dei suoi bisogni. Avevo trovato una scuola che all’inizio mi
sembrava ottima. Si chiamava AMAC e era a Union square, a Manhattan. Con l’andare
del tempo, però, mi accorsi che gli insegnanti non erano attenti, e infatti qualcuno rasentava l’abuso, per cui,
dopo lunghe discussioni, infinite ricerche e tanti dubbi, decidemmo di trasferirlo
in una scuola a Brooklyn, che si chiama Brooklyn Blue Feather.
Inoltre, tra un esame all’università e l’altro, ero sempre
impegnata a cercare di far concedere al distretto scolastico permessi per avere
una terapista che venisse a casa tutti i pomeriggi a lavorare con Luca.
Insomma, era sempre un discutere, spiegare, cercare.
Intanto Saki se ne era andata. Tom aveva per alcuni mesi
continuato a venire da noi a cena e a passare per un bicchiere di vino e una
chiacchierata. Una di queste volte mi disse che a lui dava fastidio che noi
affittassimo i due posti macchina, e che avrebbe sperato che un giorno noi
potessimo non farlo. Era molto riservato e gli dava fastidio che qualcuno
entrasse e uscisse dal ‘suo’ cancello. Si trattava di due donne anziane, che da
vent’anni parcheggiavano lì, e che lo conoscevano da quando ancora era piccino.
Gli spiegai che Dan non guadagnava abbastanza, e che quei soldi ci aiutavano a
pagare il mutuo ogni mese, così come ci aiutava l’affitto del piccolo
appartamento nel retro, abitato da una coppia lesbica che diventò subito parte
integrante della famiglia. Gli dissi che magari un giorno, quando Dan avrebbe
guadagnato molti soldi, avremmo smesso di affittare i posti macchina. Lui fece
un gesto che non aveva ancora mai fatto: mi abbracciò e mi disse commosso che
avrebbe aspettato quel momento con ansia. Capii che c’era un disaccordo tra di
noi, che prima non avevo percepito. Chiamai mister Smart e chiesi a lui.
Confermò i miei dubbi, dicendo che Tom gli aveva fatto la guerra per anni per
quei posti macchina, ma che la cosa migliore da fare era ignorarlo. “È un
ragazzino viziato e basta”, disse.
Intanto la sua casa andava un po’ a sfascio: faceva uscire
i cani a pisciare e cagare senza mai pulire, per cui il retro delle due case
era sempre pieno di merda; lasciava la pattumiera fuori così che scoiattoli,
gatti randagi e altro rompevano periodicamente i sacchettoni e spargevano rifiuti
dappertutto. Noi, allibiti ma un po’ spaventati, lasciammo correre.
Un giorno che tornava dal lavoro venne da noi e mi disse:”
Da oggi divento pazzo, per cui abbiate pazienza”. Lo disse serio, ma a me venne
comunque da ridere, perché mi sembrava una dichiarazione assurda. Lui non rise affatto,
mi fissò e disse: “Vedrai. Sappi che poi però passerà”. Mi salutò e se ne andò.
Qualche giorno dopo parcheggiò il suo furgone nella
stradina, bloccandola. La terapista di Luca, che doveva andare a casa, aspettò
mezz’ora per poter passare, e poi venne a bussare da noi e spiegò la
situazione. Dan andò a parlare con Tom, il quale fece una scena isterica
pazzesca, urlandogli in faccia di ogni, e poi spostò il furgone.
Eravamo tutti e due sconvolti. Quella sera andai a bussare
a casa sua. Era tutto buio, e mi fece entrare. A tastoni arrivai nella sala da
pranzo della sua casa che lui aveva arredato in modo molto minimalista (senza
nessun mobile in sala, ma solo con una cassa enorme da cui ascoltava musica tecno
a livelli altissimi, per esempio) e mi sedetti di fronte a lui. Parlammo per
tanto tempo, mi spiegò che era un periodo molto difficile per lui, pieno di
cambaimenti. Insomma, lo convinsi che, indipendentemente dalla sua situazione,
aveva sbagliato, e la sera dopo venne da Dan e si scusò.
Fu l’inizio della fine: smise di salutarci, cominciò a
trattare in malomodo le due donne che parcheggiavano da noi. Spesso la mattina
le ruote delle loro macchine erano tagliate. Aspettava di vederle arrivare per uscire
di casa completamente nudo, urlare come un forsennato che quella non era casa
loro e che se ne dovevano andare. Le inseguiva a casa con delle spranghe
minacciandole di spaccargli la testa. Io e Dan, sempre più allibiti, cercavamo
di parlargli, ma il nostro intervenire non faceva che peggiorare le cose.
Poi Fern, la fidanzata del suo socio e migliore amico, si
innamorò di Tom e venne a vivere con lui. La seconda sera che era lì, in un
momento di ira ubriaca, si mise in macchina e andò a sbattere a tutta forza
contro il cancello, distruggendolo. La mattina dopo ci venne a dire che avrebbe
pagato per il danno, cosa che non fece mai perché Tom le aveva detto che il
cancello lo aveva pagato lui, e quindi era suo.
Arrivarono a picchiare Buzz davanti a casa nostra, a
lasciarci merda di cane sui gradini di casa, a denunciarci al catasto perché
affittavamo posti macchina (cosa assolutamente legale). L’apice lo raggiunsero
quando si misero ad urlare contro Carol, la terapista di Luca, (che aveva da
poco adottato un bimbo dal Guatemala), perché anche lei parcheggiava dietro
durante le due ore giornaliere di lavoro con Luca. Un giorno la seguirono e
scoprirono dove suo figlio andava all’asilo, e minacciarono la povera Carol di
far male al figlio se lei avesse parcheggiato ancora lì.
Quella sera Carol mi telefonò per dare le dimissioni. Mi
ci vollero nove mesi per trovare un’altra terapista, e in quei mesi Luca perse
molto di quello che aveva imparato a fatica. Una sera mi feci coraggio
e andai da loro. Dissi che ero preoccupata che il cancello fosse sempre aperto,
perché Luca e Sofia potevano scappare e essere travolti dalle macchine che
passavano a velocità pazzesche. Inoltre, dissi, Luca ha perso mesi e mesi di
terapia per voi. Chiesi spiegazioni. Lei mi disse che anche loro avevano una
vita difficile: suo padre, per esempio, dopo che la mamma aveva divorziato, in
un momento di rabbia aveva sparato e ammazzato due persone, e adesso era
ricercato. Si nascondeva a casa loro, e lei stava cercando di aiutarlo
legalmente. In più, mi diceva come se non fosse colpa sua, diversa gente aveva
fatto loro causa per varie scene semi violente che avevano fatto in giro per la
città, compreso un incidente di macchina pazzesco causato dalle loro velocità
degne di Formula Uno.
La situazione, insomma, degenerò in maniera assolutamente
irrevocabile: avvocati, polizia, lettere dei vicini, denunce, intimidazioni,
videocamere nascoste. Robe che non sto qui a spiegare, anche perché mi fanno
aumentare la pressione.
Dopo la nascita di Emma, sei anni dopo, decidemmo di
andarcene. La situazione era ormai diventata assolutamente insostenibile. Ci
avevano insegnato a odiare, ed era una sensazione che ci faceva stare male, che
non volevamo ci appartenesse. Avevamo già un enorme bagaglio di preoccupazioni
e difficoltà. Eravamo diventati ossessionati da ogni loro mossa. Ogni volta che
uscivamo di casa e li incrociavamo, dovevo affrontarli, loro con le loro urla
violente, e io con il mio far finta di niente per non dare soddisfazione, che
però provovaca in me un grumo di rabbia mai conosciuto prima.
Decidemmo, con un dolore tremendo al cuore, di vendere la
casa. Hanno vinto loro, dicevamo. Lasciamoli nella loro miseria.
Negli Stati Uniti quando si vende una casa, l’agente
immobiliare organizza una ‘open house’: chiede ai padroni di casa di lasciarla
libera per una giornata e la apre a chiunque passi, senza bisogno di appuntamento. Di solito,
se ne devono fare diverse, di open house, prima che qualcuno faccia un’offerta. Alla open house di casa nostra, si
presentò un centinaio di persone. Tom e Fern andarono da tutti a dire di non
comprarla, e si inventarono problemi di tubature e di altro per scoraggiare la
gente.
Malgrado i loro sforzi, ricevemmo un’immensa quantità di
offerte, ben superiori al prezzo che avevamo dato alla casa. Una in particolare
era molto interessante, e accettammo. Noi saremmo tornati a Boston.
Questa volta fu difficile fare gli scatoloni. Io e Dan
amavamo quella casa, amavamo Brooklyn e tutti i nostri amici, che invitammo la
sera prima del trasloco a salutarci. Molti abbracci e molte lacrime. Molta
rabbia da parte di tutti, ma soprattutto da parte nostra che ci sentivamo
cacciati da casa.
Quando se ne andarono tutti, e la casa fu vuotata, mi
coricai, come feci quella prima sera, sul pavimento della sala, ancora una
volta vuoto. Salutai la mia casa, piansi di rabbia e di tristezza come una
bambina piccola.
Ci mettemmo in macchina, tutti e cinque, e al cancello,
Dan finalmente disse tutto quello che non avevamo ancora detto a Fern, che
guardava la nostra partenza con soddisfazione dalla finestra. Imparai parolacce
nuove, conobbi un lato di Dan che non avevo in vent’anni mai visto.
La persona che comprò la casa, poco dopo la fece demolire,
e ci costruì un palazzo di ventidue appartamenti, distruggendo completamente
stradina, cancello, garage, e vita di Tom e Fern, di cui ho perso le tracce.
Adesso abitiamo a Cambridge, tra Harvard e l’MIT, a due
passi dal cuore di Boston. Luca è in una scuola fantastica, Sofia e Emma anche.
Finalmente, dopo cinque anni, io e Dan stiamo cominciando a sentire meno la
mancanza della nostra casa al 185 di Ocean avenue, di tutti i nostri amici e
della bellissima Brooklyn.
Dan oggi ritorna a Brooklyn: non troverà più la nostra
casa, e non troverà neanche più Buzz, che è morto di cancro qualche mese fa.
Insomma, sarà tutta un’altra Brooklyn. Eppure sentirà ancora forte una punta di
amarezza, con cui oramai viviamo da anni.
Caspita Marina, che storia.. io me ne sarei andata ben prima, odio le tensioni con i vicini (e ho anche paura dei matti, soprattutto quelli non ufficiali!) . Siete stati bravi e sono contenta che ora abbiate trovate quello che cercavate. Alessandra G.
RispondiEliminaScusa, lo avrai già visto, ma magari non sai che c'è anche on line e i lettori che lo hanno perso potranno leggerlo. http://www.repubblica.it/sport/calcio/2012/10/15/news/ricordo_beppe_viola-44571598/?ref=search
RispondiEliminahttp://download.deejay.it/adv/podcast/deejay_chiama_italia/mp3/__-_45871_171012_dj_chiama_italia_beppe_viola.mp3
RispondiEliminaE' il link al podcast di deejay chiama Italia in cui hanno ricordato Beppe Viola.