Ho visto Vinicio Capossela
Era un venerdì sera, e più
precisamente la notte bianca delle librerie indipendenti di Milano. Io ero
stata invitata a presentare il mio libro alla Lirus, una bellissima libreria in
via Vitruvio. I proprietari avevano riempito due delle tre vetrine con il mio
libro, e sembravano sinceramente felici di avermi con loro. Io ero accompagnata
da tre persone speciali: Giorgio Terruzzi, Cochi Ponzoni e Stefano Vergani.
Sono rimasta estasiata dalla musica magica di Vergani, dalle parole commosse di
Cochi e dall’affetto e supporto di sempre di Giorgio.
La presentazione è andata benissimo, e finisce verso le dieci emmezza. Ero stata invitata in altre due
librerie quella sera: Utopia, in viale Lombardia (quindi, per chi conosce
Milano, non molto distante da via Porpora) e Al Mio Libro di Cristina di Canio,
invece più lontana. Purtroppo sono riuscita a raggiungerne solo una, la prima,
dove mi aspettavano i miei nuovi amici della Smemo: Michele Mozzati, Michele
Serra (non l’originale, ma gli vogliamo bene lo stesso), Alessia Gemma, Olga
Mascolo e altri ancora.
Sono arrivata in viale
Lombardia verso le undici e un quarto con mia sorella Anna, e tutti erano fuori
dalla libreria a chiacchierare. Ci hanno visto e ci hanno fatto delle belle
feste, ma qualcuno è venuto a dirci di parlare a bassa voce perchè dentro c’era
Vinicio Capossela che leggeva una cosa.
Per chi non mi conosce, ma
anche per chi lo sa già, per me è come se qualcuno mi avesse detto: “Shh, c’è
Brad Pitt in perizoma che sta cercando di telefonarti per invitarti a cena”. Stesso tonfo al cuore. Vengo però in
qualche modo distratta dalle chiacchiere degli amici Smemo, che per loro
Capossela è uno normale. “Dai, entriamo!”mi dice Anna, quasi stupita della mia
nonchalance. Mi ricordo immediatamene di non avere rimesso il rossetto da dopo
la mia presentazione. Cazzo, mi dico: son sempre lì con sette rossetti nella
borsa pronta per l’evenienza, e adesso che c’è LUI, sono senza. Entro, stupita
della mia calma.
Eccolo lì, seduto su una
sedia normale, che fa finta di ascoltare una tipa che legge una pagina di un
libro di Proust. Che pretenziosa, penso immediatamente. Anche lui pare assorto
in altri pensieri. Gioca con la barba indossando il suo cappello che conosciamo
tutti, quello tipo marinaio, per dire. Ha le gambe accavallate che mostrano
delle scarpe eleganti su un paio di jeans normali. Ovviamente gli occhi cadono
sui suoi calzini, spunto di ispirazione per una delle sue canzoni più
struggenti. Normali anche loro. Lo guardo insistentemente, ma lui è girato di là
e non mi vede.
È stato un po’ come quando
si va a New York per la prima volta, che la si è già vista in mille film. È
stato un po’ come ascoltare una sua canzone in macchina, mentre vado a zonzo
pur di non stare coi bimbi per almeno una mezz’oretta. Me lo sono guardato
bene, cercando di vedere in lui qualcosa che non avevo visto prima, con l’impossibile
eppur chiara speranza che si voltasse e mi dicesse: “Eccoti, ti aspettavo”.
Invece niente. Invece di
andare da lui a dire” Piacere, sono Marina Viola, e ti amo”, ho preferito
girare i tacchi e tornare fuori a ridere e a scherzare coi miei amici, che mi
hanno offerto una media chiara fredda e della buona compagnia. Mi sono sembrati
più simpatici loro. Più umani e meno enormi di lui. Con loro mi sento adeguata,
e sparo cagate senza temere contraddizioni, incomprensioni, giudizi.
Lui, mi hanno detto il
giorno dopo, è andato da Cristina di Canio, dove il mio amico Gianluca ha letto
alcune pagine del mio libro. Forse anche a lui.
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