Tre giorni e riparto
Tre giorni e riparto,
riprendo il lavoro iniziato a giugno e stroncato dopo un mese causa residenza
dall’altra parte del mondo. Vado, per la prima volta, in Italia senza passare
per Milano: questa volta è Roma, Cortona, Bologna, Roma. E poi qui. Qui non è neanche
Cambridge, che offre per lo meno una debole eppur presente sensazione di
appartenenza a una città. Qui è bosco, laghi, silenzio. Solitudine.
Ho paura di venire in
Italia, perché so che poi torno qui e sto male, come sono stata male quando
sono arrivata alla fine del mese scorso. Questa volta poi è solo una settimana,
che vola via come niente. Torno a presentare il mio libro, che poi è la seconda
cosa dopo la mia laurea, che ho fatto davvero per me, usando il mio cervello
anestetizzato da anni passati per gli altri. Non mi devo lamentare: mentre in
Italia sono sorella, figlia, amica, qui sono mamma, moglie, è il mio ruolo e
basta. Che a tante persone basta e avanza, beate loro.
A dire il vero è un ruolo
che io mi sono presa perché al momento di metter su famiglia ero insegnante,
cioè non guadagnavo niente. Non era neanche un lavoro che mi piaceva
particolarmente, per cui io sul tavolo delle trattative su cui io e Dan
stabilivamo chi facesse cosa, non avevo molto da offrire se non il seno pieno
di latte. Se invece avessi potuto dire: io sto a casa tre mesi poi torno a
lavorare, forse adesso non sarei qui a sentirmi stretta in un ruolo piatto.
Alla fine, dunque, la
lezione è questa, ed è una lezione che noi donne non abbiamo ancora imparato
bene: non si fan figli se non si ha qualcosa a cui tornare, perché altrimenti
si rimane intrappolate. Devo ricordarmi di insegnarlo alle mie due bimbe, se
mai decidessero di far figli.
Non per togliermi delle
sacrosante responsabilità, ma devo dire che, almeno negli Stati Uniti, c’è una
fortissima corrente culturale, specifica del mio ceto sociale, secondo la quale
i figli devono essere tirati su dai genitori (leggi mamma), e quelle che tornano
a lavorare subito dopo vuol dire che non hanno senso materno . Molte donne, infatti,
tornano alla loro carriera dopo la gravidanza, ma subito chiedono il part-time
o rinunciano completamente. Perché la pressione sociale è forte. Ne è prova il fatto
che non esistono asili nido pubblici, e che anche gli asili costano mille
dollari al mese: tanto c'è la mamma.
Io ci sono cascata in
pieno, in questa mentalità anni cinquanta, vulnerabile com’ero dal fatto
appunto che la mia carriera non fosse poi questo grande impedimento. E l’ho
pagata carissima, perché le conseguenze non riguardano soltanto un’insofferenza
di fondo in ogni cosa che si fa, con conseguente senso di colpa per l’insofferenza
di cui sopra. Il fatto è che per il resto della famiglia, la mia presenza è
data assolutamente per scontata, e così il mio ruolo: anche Emma che non ha
ancora studiato sociologia della famiglia, dice chiaramente che la mamma è
quella che sta a casa e fa la spesa e il bucato e papà è quello che esce la
mattina e torna la sera. E quando la mamma non c’è è un casino per tutti, sono
migliaia di dollari spesi in babysitter, in donne delle pulizie, di persone che
portan fuori i cani. Cioè sono negli anni diventata invisibile eppure
indispensabile.
Ne parlavo proprio ieri con una mia amica americana: anche lei,
come me e migliaia di altre donne, sente il peso dell’invisibilità, della scontatezza
dei suoi servizi: “Siamo ancora giovani, siamo belle e intelligenti, e già ci
sentiamo vecchie”, diceva con gli occhi lucidi. Mi ha anche confidato una certa
rabbia che ha provato l’altro giorno nel vedere una foto di una bellissima
donna, su una spiaggia californiana, che flirtava con il fotografo mostrando
denti perfetti, corpo perfetto, vestito perfetto. Diceva di aver osservato
questa fotografia e di essersi soffermata a cercar di capire perché un’immagine così bella le
facesse girare così tanto i coglioni, ma poi c’è arrivata: dice che la tipa
figa ha tutto quello che lei non ha. La capisco perfettamente. Anche a me
avrebbe fatto venire i nervi. Ma poi abbiamo parlato d’altro, che forse è
meglio.
Comunque: tre giorni e
riparto, a vedere se il seme che ho piantato in Italia con il mio libro sta
germogliando anche senza di me. Sto via una settimana.
Poi torno qui, gonfia di
malinconia.
Grazie per questo scritto, signora Marina (che è anche un bel nome perché era il nome di mia nonna materna).
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