Panchine
L’altro giorno ho notato una cosa che avrei dovuto notare
tipo quarant’anni fa: le persone che camminano per strada da sole hanno sempre
un’espressione triste, pensierosa. Certo che andare in giro da soli con un
sorriso stampato in faccia darebbe l’impressione di essere un po’ ciula, come
si dice dalle mia parti, ma tra ciula e triste c’è una gamma di espressioni da
cui scegliere, volendo. È che, osservavo l’altro giorno, di indole noi esseri
umani siamo sempre un po’ tristi.
Ho anche notato come nelle città le panchine vengano usate per un sacco di occasioni.
Una volta ho tradotto un libro dall’inglese sulle panchine. Era un testo di
architettura, ma mi fece pensare molto. Le diamo per scontate, noi, le
panchine, ed invece se potessero parlare, chissà quante storie potrebbero
raccontarci.
Le panchine posso essere usate per pensare, per riposarsi,
per guardarsi attorno e a volte per dormire. Possono essere testimoni del primo
bacio di una coppia, con lui e lei un po’ impauriti da un possibile rifiuto o
da una performance non ottimale. Poi c’è chi spera di andare oltre il solito bacio,
e cerca dunque una panchina più appartata, e aspetta l’imbrunire.
C’è chi, come ho fatto io in passato, usa la panchina per
mollare il moroso: lui e lei seduti uno di fianco all’altro, che guardano nel vuoto davanti a loro, anche se non c'è mai il vuoto. Lei parla, cercando le parole adatte, anche se sa che
faranno tutte malissimo, e lui che magari non se l’aspettava e che ha
un’espressione di stupore, dolore e, se gli va bene, un segreto sollievo. Poi
lui si alza e se ne va e lei rimane lì, da sola. E adesso è triste lei,
comincia a pensare di aver fatto l’errore più grande della sua vita, e lo
guarda camminare con passo lento e testa bassa verso la moto, o la macchina.
Pensa poi che magari stasera lo chiamerà per sapere come va.
C’è anche chi usa la panchina per dirsi delle cose che
possono davvero cambiare il corso della vita. Per esempio, le panchine che sono
fuori degli ospedali avranno sentito mille volte dire a un compagno dei
risultati spaventosi di una diagnosi tremenda. Immagino lacrime, abbracci,
sensazioni di terrore. Ma poi invece avranno sentito anche cose belle, magari
che quello che si pensava fosse chissà cosa non era niente. Le lacrime
in quel caso hanno tutto un altro sapore, e invece che salate sembrano quasi
dolci, e il legno della panchina sente il corpo delle persone che la
occupano rilassarsi.
C’è chi si siede sulle panchine per aspettare l’autobus, o
l’autunno, o un amico. Chi le usa per riprendere fiato dopo una corsa, chi per
dar da mangiare ai piccioni, chi per sperare di trovare la solita compagnia.
Poi qualcuno si siede per ascoltare una canzone in santa pace, o guardare il
mare, o fumarsi una sigaretta. O per leggere, chissà.
Io non le uso tanto le panchine, devo ammetterlo, forse perché quando
esco è per andare in un posto preciso, fare una cosa e poi tornare a casa.
Credo invece che chi usa le panchine abbia il privilegio di essere in giro senza una meta stabilita, o abbia tempo per pensare.
Mi ricordo una delle ultime volte che mi sono seduta su una
panchina: era a Brooklyn, davanti a casa. Sulla prima parte della Ocean Avenue
(che è lunghissima e arriva fino a Coney Island) c’è il parco più grande della
città, che si chiama Prospect park. Io ci andavo a correre tutte le mattine con
il mio cane e con le cuffie. Era il periodo che ascoltavo sempre i Coldplay, e
infatti per me Prospect park vuol dire Coldplay. Ma non c’entra con la
panchina.
Una mattina che non avevo voglia di correre ma che dovevo
comunque portare il cane, camminavo per uno dei bellissimi viali del parco e
squillò il telefono. Era mia sorella Renata che mi annunciava, quasi con un tono
di scusa, che era morta la nonna Vera, che era la mamma di mia madre e la
nostra unica nonna rimasta. Era malata da qualche tempo, ma malgrado i suoi
novant’anni, non ero ancora riuscita a preoccuparmi più di tanto, anche perché
pareva stesse migliorando.
Mi sedetti su una panchina e finii la triste conversazione
con mia sorella. Mi disse che la mamma era stata forte, e che lei e le altre
sorelle le sarebbero state vicino. Mi sentivo in colpa di non poter essere lì anche io,
con loro; di non poter neanche andare al funerale. Lei disse non ti
preoccupare, che ti sentiamo comunque vicina. Poi rimisi il telefono nella
borsa, e pensai quanto fosse strano che ero uscita di casa qualche minuto prima
che avevo ancora la nonna e adesso non ce l’avevo più. Che sarei rientrata in
casa senza nonna, e quindi diversa. Che se qualcuno mi avesse telefonato a casa
qualche minuto prima e mi avessero chiesto, ma tu ce l’hai la nonna?, io avrei
detto di si. Ma se mi avessero chiamato al ritorno della mia passeggiata, avrei dovuto dire no, le mie
due nonne sono morte. Su quella panchina stavo vivendo uno di quei momenti nella
vita che dici c’è un prima e un dopo.
Piansi un po’, e poi mi alzai dalla panchina e tornai a
casa. Per anni, ogni volta che passavo davanti a quella panchina mi veniva in
mente mia nonna Vera.
Un articolo fantastico. Quando una "semplice" panchina diventa un luogo del ricordo che ci rammenta una persona cara che non c'è più. Un abbraccio! :)
RispondiEliminaGrazie!
RispondiEliminaDi nulla, figurati! E' solo la verità!
EliminaLei mi piace sempre. Anche quando tra un pugno e una sua parola non passa uno spillo ( che non è oggi ma molte altre volte si) .Complimenti, davvero .
RispondiEliminaApprezzo questa modalità di scrittura semplice ed immediata!
RispondiEliminaPs: io siedo sulle panchine, solitamente leggo e scrivo e sorrido anche, il tutto rigorosamente da sola! :-) a presto t.t. :-)
Bellissimo Marina..mi hai fatto pensare alle panchine - anche virtuali - su cui ho ricevuto notizie belle o brutte nella mia vita
RispondiEliminaAlessandra G.