Lou Reed non c'entra
Lou Reed non c’entra. Cioé, in parte c’entra anche lui.
Parlo della malinconia che mi ha assalito ieri, quando ho saputo che era morto.
Il fatto è, credo, che legate al suo nome ci sono tante robe, tanti luoghi,
tanti momenti importanti, tante riflessioni, tanta voglia di tornare indietro.
La prima immagine che mi è venuta in mente quando ho saputo
della morte di Lou Reed è stata la stanza sporca, disordinata e leggermente
puzzolente di Dan. Sono passati almeno venticinque anni dalle serate che
passavamo lì dentro a sbaciucchiarci e a ascoltare musica. Io, mi ricordo, gli
avevo fatto ascoltare Pino Daniele, che gli piacque molto. Poi lui mi disse, ’Ascolta questa’, e mise nel lettore cd il disco Loaded dei Velvet
Underground. Dalla copertina, la conoscete tutti immagino, non si capisce per niente
che tipo di musica proponga questo gruppo con il nome tanto strano, che evoca
un po’ gli Weather Underground, e quindi il periodo rivoluzionario americano
più recente, ma che associato a Velvet, diventa un po’ effemminato, trasgressivo e
sexy.
La prima canzone del disco è ‘Who Loves the Sun’. Io l’ascoltai e mi si
aprì un mondo; nel mio cervello si aprì una porta che non sapevo esistesse, e
dietro la porta c’era la voce di Lou Reed, le parole semplici eppure struggenti.
Non feci in tempo a riprendermi che iniziò ‘Sweet Jane’. Ne uscii esausta,
cambiata. Ecco, ieri mi è venuta in mente questa immagine, e ho provato quelle
stesse sensazioni antiche, vissute quel giorno.
E poi ho pensato, musica a parte, a come fossimo giovani io
e Dan quando ascoltavamo quel disco e ci sbaciucchiavamo sul suo letto con le
lenzuola puzzolenti, e a quante cose ci siano successe da allora: lui che ha
vissuto a Milano per un anno, io che poi sono venuta a vivere negli Stati Uniti, le nostre università varie, i nostri traslochi, i nostri appartamenti,
e poi la mia prima gravidanza, quando passavamo le serate a immaginare un
figlio completamente diverso da quello che poi è nato.
Parlare di Lou Reed vuole anche dire parlare di Brooklyn,
NY, dove lui era nato. Brooklyn rappresenta una parte essenziale della mia
vita, perché è dove ho trovato la spinta di tornare a studiare e laurearmi, è dove
è nata mia figlia Emma, è dove ho incontrato persone eccezionali, tipo Liz e
Martina e Jacqueline, e dove ho respirato l’aria putrida dell’undici settembre
e la pazzia del nostro vicino di casa, che ci ha obbligati a scappare dalla
nostra casa e dalla città di cui ci sentivamo parte integrante.
Brooklyn è un contenitore, in cui chi vuole può trovarci di
tutto: c’è ricchezza sfrenata e povertà indescrivibile, ci sono persone di
tutto il mondo, di tutte le religioni; ci sono le zone appariscenti e le zone
da terzo mondo. C’è caos e silenzio. C’è un cuore che pulsa a mille all’ora e
che produce musica, arte, teatro, letteratura. Vivere a Brooklyn è un po’ come
vivere in un vortice. Brooklyn mi manca tanto quanto Milano, a volte.
E infine Lou Reed mi fa pensare alla Factory, a Andy Warhol
e a quel periodo saturo di creatività, di voglia di sperimentare cose nuove, di
spaccare barriere. Un mondo che ha, in parte, un’energia simile a quello in cui
mio padre lavorò e inventò con i suoi compagni di avvventure un linguaggio
dissacrante e un'attenzione alle persone normali.
La Pop Art è stato un po’ quello: una sberla all’arte
dell’elite, un’arte popolare, da mettere sulle lattine della minestra, un’arte che mostra
una ripetizione della stessa immagine e che mimica una produzione di massa di
immagini. Un’arte che prende un’icona come Marilyn Monroe, o un personaggio
duro come Mao Tse-tung e li deride, senza offendere. Un’arte che sceglie una
banana e una band di poco successo, li mette insieme e inventa i Velvet
Underground, che diventano leggenda.
Adesso chi osa proporre cose del genere? Chi ha voglia di
mettere in discussione il nostro mondo? Chi è curioso di scoprire cosa c’è
dall’altra parte e spinge per rompere le barriere che ci circondano?
Oddio, lo so: sembro una vecchietta, sono la tipica persona
di una certa età che glorifica il suo periodo e demonizza la generazione attuale.
Dai, mi fermo qui che è meglio.
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