Oggi giornata da Sally
Dopo dieci anni ho rivisto la mia amica Jen, che abita a
Montreal, ha due figli per cui è raro che ci becchiamo. E dopo dieci anni il
discorso è ripartito esattamente dove era rimasto, tranne che da allora sono
cambiate tante cose, tra cui noi due. Sono tante da recuperare, in 35 ore, le
cose successe in un decennio, per cui abbiamo deciso, parlando
ininterrottamente, di passare al sodo: come stiamo noi, con i nostri compagni,
con i nostri figli che sono adolescenti (ci siamo lasciate che spingevamo i
passeggini per le vie di Brooklyn).
Non mi capita spesso di dover sommare in poco tempo così
tante cose, così tanti alti e bassi, le crisi e i momenti di sublime felicità,
e le poche volte che mi ritrovo a farlo so perfettamente che, come dopo una
bella sbronza, il giorno dopo sto male. Perché tiro in ballo momenti che
ancora adesso sono difficili, e che tengo nascosti dietro la mia quotidianità,
sempre calduccia, sempre apparentemente normale.
È come se dovessi andare a ripescare il mal di schiena che
avevo prima di essere operata, e per farglielo davvero capire, farle vedere come
mi contorcevo dal dolore. Solo che il mal di schiena passa: si tolgono i punti,
due mesi di fisioterapia e ti senti nuova. Invece altre cose no: i compromessi
che si fanno con se stessi, l’accontentarsi, le battaglie per tenere sotto
controllo gli impulsi che al momento sembrano essere l’unica via d’uscita. I
sensi di colpa. Il tempo sprecato a non far niente, a assopirsi nel sottofondo
del dolore che non si riesce a sopprimere neanche con il DDT. E poi le ho parlato dei momenti alti: il libro, l’attenzione di tutti, i complimenti, gli sguardi
gonfi e languidi di uomini su un treno, in un ristorante. Innocenti, senza
conseguenze, ma che ti fanno sentire ancora piacente, quasi bella.
E lei ha parlato tanto a me, dei suoi riti di sempre appesantiti dagli anni, dai
suoi, di dolori, dalle sue di speranze, delusioni, ambiguità. E poi abbiamo parlato dei nostri
compagni, in tante cose molto simili, e delle nostre paure, delle nostre antiche
problematiche con loro, risolte in parte dalla nostra maturità e in parte dal
tempo, che ammorbidisce gli spigoli.
E infine abbiamo disturbato i ricordi. Ne abbiamo tanti insieme: siamo state sedute
giorno dopo giorno su un divano da lei o da me, con il seno fuori e un bimbo
attaccato al capezzolo gonfio, mentre imparavamo a fare le mamme, e a essere
amiche. I mesi, gli anni passati a condividere tantissimo. Ne abbiamo, tra
tutti questi momenti, ricordato uno che, in modi diversi, ha rappresentato una
svolta storica per entrambi, che abbiamo tirato fuori dal cilindro l’altro ieri
un un bar con la musica alta, davanti a una pinta di birra rossa, e che ci ha
fatto piangere, a tutte e due nello stesso momento.
Parlavamo di quando andai a casa sua, dopo aver scoperto che
i problemi di Luca non avrebbero mai potuto essere superati. Me lo avevano
detto così, senza mezzi termini, senza speranza. Io avevo tenuto duro mentre
rivestivo il mio bambino che mi sembrava perfetto ed invece era difettoso.
Uscii da quella stanza bruttissima e invece di andare a casa andai da Jen. Aprì
la porta, in silenzio prese Luca in braccio e mi fece sedere sul nostro solito
divano. Disse soltanto: “He is my angel”. e poi rimanemmo lì, tutti e tre.
Piansi per molto più tempo di lei, con molta più rabbia di lei, con una
desolazione primordiale e senza ritorno. Una svolta per me, ma anche per lei,
che dovette assistere al mio dolore e vivere con me quel momento indelebile.
Non ne avevamo mai più parlato. Fino all’altro ieri sera. Dopo un
silenzio quasi imbarazzato, abbiamo cambiato discorso perché piangere in un bar
è un cliché che puzza di vecchio, di usato.
Jen oggi parte, e chissà quando ci rivedremo. Ieri notte ci
siamo date un abbraccio lungo e, ancora una volta, gonfio di cose vecchie e di
speranze nuove.
Stamattina ho fatto la doccia, in silenzio mi sono vestita e
prima di ingranare la prima ho cercato sull’ipod Sally, quella di Vasco Rossi
del periodo quando gli volevo più bene. E mentre il paesaggio offriva una vista
di Boston da cartolina, mi sono venute in mente tante immagini senza sonoro,
tipo film di serie B, e ho ripianto, malgrado avessi anche messo un po’ di
trucco rubato di sfroso a mia figlia Sofia.
Poi la canzone è finita: quella dopo, in ordine alfabetico,
era ‘Saluteremo il signor padrone”, cantata da de Gregori e dalla Marini, che
suscita tutto’altra roba.
Ho spento, ho parcheggiato, e mi sono accesa la prima
sigaretta.
Questa donna scrive anche per Sdiario e noi Sviaggiatori ne siamo sommamente fieri!
RispondiElimina(molti abbracci)
http://barbaragarlaschelli.wordpress.com
EliminaVisto che ce l'hai fatta? Un abbraccione a te, carissima!