L'orologio di Charlestown
A settembre, quando il ritmo incalzante dei miei viaggi in
Italia si è un po’ placato, ho deciso di affittare un piccolo ufficio, dove
andare a scrivere e a stare tranquilla. L’ho trovato a Charlestown.
Charlestown è una zona di Boston molto bella: sembra di
entrare in un paesino della provincia inglese, con il porto, con le casette di
mattoni, le porte laccate di vernice nera o rossa, i davanzali con i fiori, i marciapiedi
di mattoni rossi, le stradine piccole, i pub agli angoli e le mamme stanche che
spingono le loro carrozzine.
È solo da pochi anni che questa zona è stata rivalutata,
perché la sua reputazione dal punto di vista del crimine e della violenza non è
sempre stata eccellente: era il posto da evitare se si voleva cercar casa per
mettere su famiglia. È molto diversa da Cambridge, dove abito io, che invece è
prevalentemente occupata da università prestigiose, tipo Harvard o il MIT e per
questo è meno ‘working class’.
Per arrivare al mio ufficio in macchina prendo la Memorial
Drive, che accosta il fiume Charles e che termina di fianco al museo delle
scienze, dove inizia un ponte che sbuca a un incrocio senza semaforo ma con
quattro stop. Di fronte a me, mentre aspetto il mio turno, c’è un vecchio
palazzo, più alto degli altri, il cui pian terreno è occupato da un negozio di
vestiti usati e da un’agenzia immobiliare. Sulla parete del palazzo, al livello
del secondo piano, c’è anche un grande orologio, molto bello, che sembra antico,
e che da settembre fa le sei e dodici. Pensavo oggi, guardandolo: che strano che
ci sia un orologio fermo, come se con lui anche il tempo si fosse fermato,
mentre invece da settembre sono passate tantissime cose, sia nella mia vita che
nel mondo in generale.
È passato l’autunno e sta finendo l’inverno. È passata la
mia forte crisi che ho avuto al rientro dall’Italia, e la mia ansia. È passata
mia madre, che viene ogni novembre a festeggiare il compleanno di Luca. Sono
passate tutte le serate con gli amici, o quelle tranquille a chiacchierare con
Dan. È passato il periodo di Adam, il terapista poco competente di Luca, e la
frustrazione della sua collega. È passato il primo giorno di elementari di Emma
e il primo giorno di liceo di Sofia. Sono passati i miei dubbi su cosa
scrivere, e come. È passata la morte di Philip Seymour Hoffman, e di Freak
Antoni, e il Festival di San Remo. È passato il secondo semestre del mio amico
Richard passato a Roma con i suoi studenti. È passata la mia ossessione per le
canzoni di Damien Rice, e la mia scoperta di Ray Lamontaigne. Sono passate
gioie, malinconie, solitudini, momenti intimi e momenti brutti.
Ma per l’orologio di Charlestown non è passato neanche un
secondo: sono sempre le sei e dodici. Detta poi proprio da un orologio, il cui compito
è quello di calcolare per noi il ritmo del tempo, questa è una cosa che fa ancora più pensare: lui, la voce, l’autorità
del tempo, ci dice che non è successo nulla e che il minuto dopo le sei e dodici deve ancora arrivare. E invece di sei e dodici da settembre ad adesso ne sono
passate tantissime, ma in un’altra dimensione, in un’altra realtà, lontana
dall’orologio di Charelstown e dalla sua beata pausa.
A tutte queste cose pensavo, mentre la macchina dietro di me
suonava il clacson impaziente. Ho quindi girato a destra, ho trovato
parcheggio, ho schiacciato il numero tre dell’ascensore, sono arrivata nel mio
ufficio, mi sono fatta un té e ho cominciato la mia giornata.
Senza tempo.
cara Marina ho scoperto il tuo blog da pochi giorni:mi piace qullo che scrivi e come lo scrivi!Sono una persona anziana che ha conosciuto ed apprezzato il tuo Papà, i Suoi scrittie le cronache; ti leggerò ancora, ciao da Roma
RispondiEliminaGrazie! Un abbraccio.
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