Lettera aperta a Angelo Ferracuti e Paolo Marzoni




“Io riesco a scrivere poesie forse perché riesco a cogliere questi istanti felici che non tutti colgono, questi momenti, questi attimi.
Non tutti colgono questi attimi. Perché è un po’ come dice Benedetto Croce, “la poesia è illuminazione”. Però se è illuminazione significa che siamo oscurati e tutto è nell’oscurità e a un tratto, PAM, la luce.”

Luigi Di Ruscio (1930-2011)


Carissimo Angelo e carissimo Paolo,

mi piacerebbe condividere con voi l’enorme fiume di sensazioni provocato dal documentario che avete fatto, La Neve Nera, in cui raccontate la storia di Luigi Di Ruscio, operaio metallurgico e poeta, trasferitosi a Oslo da Fermo, il vostro bellissimo paese marchigiano, dove la lettera gi viene pronunciata con una dolcezza che una gi normale non dovrebbe neanche avere. Ero impreparata a un impatto così forte, non me lo avevate spiegato che sarebbe stato devastante, per cui è anche colpa vostra, anche roba vostra.

Non sono mai stata operaia, e infatti ogni volta che devo attaccare un chiodo alla parete va a finire che si storta, o che mi faccio male o che si fa male il muro, su cui faccio un buco enorme. E non sono venuta all’estero per trovare lavoro, o per sfuggire a chissà quale destino. Io sono venuta per amore, che è nobile quasi come nobile è il lavoro di fabbrica, ma meno doloroso (a volte). Infine, non sono più particolarmente attenta alla politica, anche se dovrei esserlo soprattutto qui negli Stati Uniti, dove si spara ai bambini che stanno a scuola, tutto in nome della Costituzione. Ce ne sarebbe, di lavoro.

Ma per il resto mi sono sentita molto vicina al vostro poeta, alla sua condizione di straniero in un mondo che impone un cambiamento radicale, non solo dal vino alla birra, ma anche tra cultura di casa e cultura nuova. Cerchiamo, noi italiani all’estero, di mantenere gelosamente la nostra “italianitudine”, a costo, anzi sapendo bene, di rimanere isolati. E chi è fortunato e riesce a scrivere, lo fa nella sua lingua, perché alla fine è lì l’unico spazio in cui si può essere sinceri, dove il nostro essere noi può essere liberato, senza cercare di evitare incomprensioni linguistiche, ma soprattutto culturali.

Il nostro essere ‘diversi’, come spiegano i suoi figli e sua moglie, è il nostro marchio, è per noi la certezza che la nostra battaglia per rimanere quello che siamo la si può vedere, toccare, sentire. A costo di diventare diversi anche nel senso di essere antipatici, di litigare, di non essere dei genitori attenti o dei compagni ideali.

Il nostro essere diversi all’estero poi diventa una macchia d’olio sempre più grande e impossibile da fermare, tanto che ad un certo punto anche quando si torna in Italia ci si sente un po’ diversi: ho assorbito anche io, come lui, il disagio che si prova quando ci si accorge che a Oslo manca l’Italia, e in Italia manca l’odore degli alberi norvegesi. Anche a me capita proprio così, ed è una sensazione che mi trascina immediatamente in uno stato di panico, perché mi rendo conto che non sto bene da nessuna delle due parti, che ormai non ho solo un’italianità, ma vivo anche una condizione di straniera dappertutto. Accetto vinta la cognizione che non basterebbe semplicemente tornare in Italia per stare meglio. Poi certo, quando si è a casa si è più simili che diversi, ed è sempre una boccata d’ossigeno che centelliniamo, fino alla volta dopo.

La sua decisione (paracula, sembra dire la moglie) di non volere insegnare ai figli a parlare italiano, la capisco pure quella, perché significa che la sua scrittura potesse essere davvero più libera, più sincera, più solo sua. Anche per me è la stessa cosa, e credo che in parte quando si legge una cosa senza capirne il contesto, senza aver intrapreso lo stesso viaggio anche per arrivare a conclusioni diverse, diventa soltanto un esercizio di lingua, come quando si studia l’inglese sui libri di scuola. E chi scrive non vuole condividere il proprio lavoro con chi non capisce fino in fondo, perché lo inquina in un certo senso.

Mi sono ritrovata molto anche nella figura del figlio più piccolo, che ha più di tutti goduto dell’amicizia padre: l’unico artista tra i quattro figli (quattro figli, appunto), e non credo sia poi un caso. Ho avvertito una penosa famigliarità quando verso la fine vi dice di aver perso un amico, e che quello che gli manca è l’opinione controcorrente di un padre controcorrente, magari anche avanti nel tempo, come lo sono tante persone come lui. E poi, al cimitero, ci racconta della tristezza di non poter condividere con il suo papà cose che accadono, e di non poter sapere come avrebbe reagito. E poi quando smette di raccontarci di come gli manca, si ferma. Sospira un sospiro come il mio, esattamente, ogni volta che mi metto a pensare a queste cose.

E poi mi ha toccato dentro l’anima il fatto che questa storia sia legata a un viaggio di nozze soprattutto perché conosco tutto quello che è successo dopo. E che sia un lavoro innaffiato di ricordi. Un lavoro, giustamente, dedicato a Patrizia.

Sono rimasta con una voglia immensa di potervi abbracciare, voi tutti, vivi e morti. E anche con una voglia forte di piangere, cosa che fortunatamente posso fare tranquillamente.

Grazie, Angelo e grazie Paolo, dunque.
Per avermi fatto sentire meno sola.

Marina

Il documentario LA NEVE NERA, Luigi Di Ruscio a Oslo - un italiano all'inferno, verrà presentato al Biografilm di Bologna giovedì 12 giugno alle 19:30



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