Con tutta la ginnastica agonistica





Un po’ di settimane fa Dan arriva a casa con una specie di braccialetto che sembra il cinturino di un orologio. Dice che si chiama Fitbit e conta i passi che fai durante la giornata: se ne fai diecimila vibra per farti i complimenti, proprio come quando i cani scodinzolano. Lo voglio anch’io, subito. Cento dollari spesi benissimo, perché diciamocelo, perdere quei quattro chili in più non è difficile con il Fitbit.

Se lo si picchietta due volte sulla parte più spessa, dove cioé ci dovrebbe essere il quadrante dell’orologio, vengono fuori delle lucine: se sono cinque vuol dire che sta per vibrare. Come scrive David Sedaris sul New Yorker della settimana scorsa, il Fitbit diventa presto un’ossessione: vivi in funzione della vibrazione alla fine della giornata e se non la raggiungi ci rimani malissimo. Dice Sedaris di aver aumentato la quantità di passi a tal punto che adesso cammina tipo sette ore al giorno, solo per sentire quella piccola scossa alla sera. Lo capisco perfettamente.

Stamattina prima di fare la doccia, ispirata dall’articolo di Sedaris, sono andata a fare una passeggiata, sperando che da una, le lucine diventassero almeno tre. Invece ho scoperto che conta anche le mezze lucine, perché ce n’era una emmezza. Un po’ demoralizzata sono andata a fare la doccia, e siccome sono troppo impaziente e non voglio aspettare di aver perso i chili in più, mi sono messa la minigonna a tubino che mi ero ripromessa di mettermi tra un po’, quando la linea me lo permetteva. Poi mi sono messa sul terrazzino a scrivere, dimenticandomi di Fitbit e dei miei quattro chili in più.

Verso le undici emmezza arriva puntuale il messaggio del mio amico Richard, che dice solo: Lunch? Si, certo, dimmi dove e arrivo, rispondo. Mi fa: 'Meet me at my house. Bike.' Lui scrive sempre così, tipo i telegrammi di una volta. Non ho voglia di andare di sopra a mettermi un paio di jeans per cui decido di tenermi il tubino nero, a cui aggiungo un paio di scarpe giallo canarino con il tacco. Gli rispondo, ho i tacchi: se non mi ammazzo arrivo tra un quarto d’ora.

Per salire sulla bici mi sono assicurata che in giro non ci fosse nessuno perché ho dovuto alzare vertiginosamente la gonna, che ho prontamente riabbassato prima di iniziare a pedalare. Andando ho pensato: adesso vedrai che gli operai che stanno rifacendo la fine della strada mi guardano le gambe e magari mi fischiano anche. Mi tolgo le cuffie per sentire meglio. Passo, gasata,  assaporando quegli sguardi che segretamente mi hanno sempre fatto piacere. Non mi cagano neanche di striscio. Ci rimango malissimo, ma mi convinco che essendo intenti a lavorare per migliorare la mia città, non si vogliono distrarre. Sono dei bravi operai. Dei bravi padri di famiglia, che non si fanno distrarre neanche da due gambe così. Good job.

Passo per Central square, dove ci sono tanti homeless, ubriachi già alle undici del mattino, che spesso fanno commenti alle persone che passano, uomini e donne, belli e brutti, grassi e magri. Sono lì a commentare il mondo che gli passa davanti. Mi dico, vergognandomi di me stessa per come sia arrivata in basso pur di ricevere un complimento: loro sicuramente mi diranno qualcosa. 

Alzo la testa con fierezza, scacciando la delusione di qualche minuto prima e pedalando dolcemente con le mie belle gambe, prodotto di anni di ginnastica agonistica. Ma neanche loro mi guardano. Impossibile, mi dico. Il semaforo diventa rosso proprio davanti a loro. Mi fermo e li guardo come dire: oh, visto che cosce? Sono due signori di una certa età, tutti e due con la barba bianca, i vestiti sporchi, le mani nere, una bottiglia in due nascosta in un sacchetto di carta di quelli marroni. Stanno discutendo e non mi vedono.

Verde. Ormai con il magone giro a destra sulla Massachussetts Avenue e poi a sinistra, e prendo la stradina che mi porta sulla Columbia street e infine a casa di Richard. Mi vede arrivare dalla finestra e sento che mi dice: un attimo che scendo. “Oggi tacchi e minigonna, per andare in bici...” gli dico per sdrammatizzare. Sorride, e insieme andiamo a un ristorante francese carino. Mangiamo, facciamo pettegolezzi, ce la contiamo su, poi lui va a fare delle commissioni e io torno a casa.

Durante il tragitto incontro: altri operai, poliziotti, impiegati di banca, studenti di corsi estivi, uomini giovani, di mezza età e anziani, ingegneri, cuochi, turisti senza mogli, passeggiatori di cani, meccanici, impiegati statali, taxisti, disoccupati, imprenditori, carpentieri, gigoló. Tutti che mi vedono ma nessuno, dico nessuno che mi guarda. 

Durante gli ultimi metri del tragitto fino a casa mi sento assalire da quel tipico rigurgito che preannuncia la mia malinconia per l’Italia, dove anche i quattro chili in più non fermano gli sguardi degli uomini, neanche i loro commenti e i fischi che mi fanno sentire, per un secondo, una strafiga. Qui non si osano, sono tutti politically correct, e fare un commento a una donna è da pervertiti sessuali.

Ad un tratto sogno di essere in Romagna, dove le tette e i culi sono apprezzatissimi. Lego la bici e picchietto il Fitbit, sperando che almeno lui non mi deluda: segna ancora le due lucine di stamattina perché poi ho capito che non riesce a registrare i giri in bici, visto che tutto sta nel movimento del braccio quando si cammina.

Mando a cagare anche il Fitbit e mi tolgo i tacchi gialli. Mi passa anche la voglia di mettermi il rossetto, la prossima volta, che qui non mi apprezza nessuno.


Commenti

  1. Ma la bilancia intelligente che parla col Fitbit e ti aiuta a raggiungere gli obbiettivi, ce l'hai mica?

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