Sette a uno tutta la vita
A calcio, sette a uno non è una sconfitta: è un’umiliazione che
rimarrà scolpita nella storia dei mondiali di calcio per sempre. E poi a casa
loro. Le parole dei giornalisti, di chi analizza e commenta, immagino, si sprecheranno per descrivere quello a cui milioni
di persone hanno assistito, aspettando frenetici il novantesimo per smettere di
soffrire.
Io, che di calcio so solo che due squadre si tirano un
pallone che deve andare in porta, penso invece a come ci si deve sentire, nella
vita reale, quando si perde sette a uno. Il problema, in questo caso, è
quell’uno, perché rappresenta un tentativo di ribellione, un non darsi per
vinti, un chiaro segno di rivincita, seppur minima. Questo succede, immagino,
quando si è talmente convinti di essere dalla parte della ragione che anche
quando è chiaro che non si vincerà, si continua a sperare.
Un mio amico dice che pecco sempre di ottimismo, e che vedo il bicchiere pieno anche quando dentro non c’è che una goccia. Cosa,
devo ammettere, che prendo come un complimento. Perché questo sette a uno mi fa
pensare non a una sconfitta tipo sette a zero, ma alle volte in cui in fino in
fondo si sa di aver ragione, eppure non ci si riesce a spiegare, perché quelli
attorno a te la pensano diversamente e concludono che sei tu dalla parte del torto.
A me, ogni tanto, capita di perdere sette a uno e non sentirmi sconfitta.
Mi capita ogni volta che devo spiegare che Lola, il mio
cane, quando attacca un altro cane, lo fa perché ha paura. Il padrone del povero cane attaccato ha tutto il diritto di mandarmi a cagare, perché quando un boxer
attacca, anche se alla fine è tutto fumo e niente arrosto, tutti si spaventano. Eppure. Eppure io so che Lola non farebbe male a
una mosca, e se io non ci sono per due giorni mi riempie di baci che le devo
dire di andare a cuccia. Sette a a uno.
Mi capita quando mi ritrovo a giustificare il modo che ho di
generalizzare quando parlo degli americani: è vero che non sono tutti uguali, e
che anzi di tutte le nazioni al mondo sono i più variegati, tra razze,
condizioni sociali e diversificazione in generale. È vero che sono avanti per
quanto riguarda i diritti dei gay, delle minoranze, delle donne, dei disabili.
Eppure. Eppure quando insegnano ai loro figli l’importanza delle armi o l’importanza
di bombardare un altro Paese io non sarò mai d’accordo. Sette a uno.
Mi capita ogni volta che discuto con le mie amiche
l’importanza del nucleo famigliare: la stabilità della famiglia, il rispetto per
il compagno, l’importanza di creare una struttura solida, sia per la coppia che
per i figli, l’aspettativa di vivere un futuro insieme, in cui godere degli di
anni di sacrifici. Eppure. Eppure capita, a tutti, anche se pochi lo ammettono,
che il desiderio di mandare tutto a cagare e di vivere senza una meta precisa
prenda il sopravvento e che vivere il momento sia più inebriante che attendere un futuro scontato. Sette a
uno.
Mi capita ogni volta che vedo Luca, lottare per raggiungere
una normalità che mai raggiungerà e che, soprattutto, non gli interessa e mai
ha chiesto di raggiungere. Interessa a noi, alle sue terapiste, alle sue
insegnanti, alle sue sorelle. Eppure. Eppure è bello osservarlo nel suo mondo strano,
in cui si sente libero di seguire i suoi istinti, e togliersi i vestiti,
mettere il suo piede destro nella fodera del cuscino e ascoltare la stessa
canzone un miliardo di volte. Sette a uno.
Mi capita ogni volta che mi dò dei limiti, perché so che
continuare sarebbe deletero. Limiti in tutti i sensi: discutere, sognare,
rubare la Nutella, sperare, rimpicciolirmi, esagerare, accogliere magoni,
credere in una realtà diversa dalla realtà. Eppure. Eppure quando oso superare
il limite e fingo di non appartenere alla realtà, trovo un mondo immaginario, fiabesco, in cui mi sento finalmente felice, che mi fa pensare di avere, almeno per un attimo, quasi
ragione. Sette a uno.
Per cui, pensavo stasera, sette a uno non è poi così brutto,
nel senso che in quell’uno c’è un’illusione, un sogno, una spinta verso
qualcosa che potrebbe essere straordinaria, anche se mai potrà essere. Una
possibilità, ecco la parola giusta, che la realtà, la razionalità, il buon
senso, la Germania, alla fine, con il suo sette, scarta.
Si spegne la tele e si pensa: per fortuna non era sette a zero. Per fortuna che c'è stato quel gol. Una soddisfazione.
Bell'articolo, ringrazio Gad Lerner su Fb per avermelo fatto conoscere...e per ricordarmi di comprare il su libro.
RispondiEliminaCon simpatia
Amedeo Dordi
Semplicemente bellissimo...
RispondiEliminaHa esultato anche il portiere per quel gol. Il portiere che, come nel romanzo di Peter Handke, prova il sentimento della paura prima del calcio di rigore; una paura esistenziale che è anche metafora della vita: quella di chi sa che deve comunque imporsi di prendere una decisione, anche se poi potrà risultare sbagliata. Articolo molto bello, ci si sente il cuore.
RispondiEliminabellissimo articolo , venuto poi per me nel momento giusto ..... grazie
RispondiEliminaDaniela