Un capitolo attaccato a un filo
Come tutte le cose, o quasi tutte, era inevitabile che si
sarebbe rotto. Era ormai tenuto insieme da due filettini disgraziati, che
stamattina mentre facevo il solletico a Luca hanno detto: noi molliamo. Parlo
di un braccialettino, quello sottile di fili colorati di un euro che si compra
dai venditori ambulanti, tutti stranieri, e che, qualcuno dice, porta fortuna.
Era giugno dell’anno scorso. Ero in giro per l’Italia ormai
quasi da un mese per presentare il mio libro, e a Milano mi era venuta a
trovare la mia amica Paula, americana, che era in Inghilterra per una delle sue
conferenze.
Io e Paula ci siamo conosciute che eravamo tutte e due
incinta per la prima volta, lei di Keegan e io di Luca. Andavamo il mercoledì
sera al corso preparto, dove ti illudono che se respiri fa meno male, che son
palle: partorire fa un male della madonna e basta, altro che respirare. Ci
eravamo scambiate i numeri di telefono e ripromesse di sentirci.
Poi una sera che guardavo Seinfled mi è venuta la prima di
mille contrazioni e con Dan agitatissimo e il seggiolino per la macchina che
non sapevamo montare, siamo andati in ospedale. Alla mia prima (e ultima,
purtroppo) siringata di morfina, chiesi all’infermiera se una certa Paula
avesse già partorito, e mi disse di si, con grandi difficoltà: Keegan aveva
bisogno di cure immediate e erano ancora nel reparto di cura intensiva, nove
giorni dopo la nascita.
Poi quella sera nacque Luca, bruttissimo con la testa a cono e un occhio
tutto rosso. Lo portammo
a casa il giorno dopo, senza avere la minima idea di come cambiare pannolini,
allattare, lavarlo e vestirlo. Sapevo solo una canzone che mi sembrava
appropriata per un neonato: Ma mì, quella dei quaranta dì e i quaranta not. Dan
invece sapeva Buonanotte Fiorellino, e la cantava alle quattro di notte, in
mutande, con due occhiaie così. Allora credevamo ancora che fosse un bambino normale.
Chiamai Paula quasi subito, andai a trovarla. Keegan era
nato con moltissimi problemi, tutti che dovevano essere riparati da mani
di chirurghi eccellenti, ma era un bambino di una bellezza spiccata e con gli
occhi dolcissimi, come quelli che ha adesso, quando ormai quasi uomo e finalmente sano, mi
abbraccia dicendomi: “Hi aunt Marina”, facendomi sciogliere tutto dentro.
Keegan era spesso in ospedale, e poco dopo avrebbe cominciato ad esserci anche
Luca, con problematiche diverse ma non meno spaventose.
Io e Paula diventammo istantaneamente amiche del cuore. I
nostri momenti di sconforto erano ritmati dai tanti di risate e bevute di birra
che fa venire il latte e soprattutto fa sciogliere l’ansia. Non ci siamo mai
più perse di vista, neanche quando lei è andata a vivere a Boston e io a New York,
quando poi lei è andata in Pennsylvania e io a Boston, poi lei in Florida e
adesso a Toronto, in Canada. Lei è il mio punto fisso americano, in assoluto. È la mia quarta sorella.
Insomma, mi ritrovo a Milano con Paula, per la prima volta
in diciassette anni che ci conosciamo, e le faccio fare un bel giro della
città. Io ero appena tornata da non so dove, e il giorno dopo sarei andata a
Bologna, per un’ultima presentazione del libro.
Eravamo sedute in piazza del Duomo, sui gradini, a mangiare
un gelato e a chiacchierare quando un uomo africano bellissimo, alto, vestito
con mille colori e pieno di merce da vendere si avvicina a noi, senza dire
nulla mi prende il braccio e mi allaccia il braccialetto. Mi sorride e se ne
va. Io sono rimasta con il braccio a mezz’aria mentre lo guardavo,
meraviglioso, andarsene.
Quel braccialetto mi ha accompagnato da quel giorno lì,
quando pensai che la volta che lo perdo coinciderà con la fine di un capitolo
bellissimo della mia vita. Un periodo in cui ho conosciuto un sacco di persone
interessanti, affascinanti, alcune bellissime (anche fisicamente, dico); dove ho condiviso
con tantissimi i miei ricordi di mio padre stampati in un libro che tutti dicono
sia piaciuto. Un capitolo, per la prima volta, vissuto da sola, senza Dan,
senza bambini, in cui io ero Marina Viola e non la mamma o la moglie di
qualcuno.
Poi questo braccialetto mi ha seguito anche quando sono
tornata a casa, e poi sono ripartita quasi subito per Cortona, poi ancora per
Bologna. E mi ha seguito negli altri due viaggi in Italia ancora, a parlare del
mio lavoro, di mio padre. Sempre con lui, il mio braccialetto portafortuna. E
oggi si è rotto: capitolo, quello, concluso. Si dice che basta guardare al
passato, che palle con queste malinconie: puntare sul presente, al limite
lavorare per un buon futuro. Tutto giusto.
Ma di nascosto, oggi, quando ero sul letto di Luca a fargli
il solletico, mi è venuto da guardare indietro, solo per un attimo. E mi è
piaciuto moltissimo quello che ho fatto in quel capitolo lì.
Moltissimo.
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