La malinconia del Natale
L’immagine iniziale del mio filmino natalizio è
sempre la stessa, ogni anno: di sottofondo c’è “I Get Along Without You Very
Well”, di Chet Baker, io sono in piedi vicino alla porta finestra della mia
camera da letto di Becket, dove c’è più campo, sorrido, parlo gesticolando e
poi rido al telefono. La mia voce non si sente, è un’immagine tipo réclame del
Mulino Bianco per dire.
Fuori il paesaggio propone un bosco con gli alberi spogli,
il fiumiciattolo quasi completamente congelato, ma che ha ancora un rigolo
d’acqua che scende fino al lago, che però dalla finestra non si vede. Per
terra, un po’ di neve e il resto è un tappeto di foglie secche, bagnate.
L’amaca, tra i due alberi a sinistra, è tristemente abbandonata nelle grinfie
dell’inverno dell’America del Nord-Est, New England, per la precisione. Brutale.
Desolato. Senza nessun accenno di tiepidità fino ad aprile.
Io fumo. La telefonata, che in questo film non si sente,
inizia sempre con Serena che risponde al telefono di mia mamma. Di solito
è arrivata da un giorno o due da Bologna, e racconta divertita i dettagli di
quello che sta succedendo: la mamma e Milena prese, felici ma stanche e un po’
nervose; Paolo che mangia troppo; Fabio e Bruno che giocano con il piccolo
Rocco; Renata e Mario che arrivano con i regali e poi Anna con i ragazzi e
Riccardo. Insomma, le solite cose. Serena passa la cornetta alla mamma, che
parla di fretta dicendo che deve andare perché sta buttando la pasta. La cornetta poi fa il giro della tavolata. Auguri, Auguri,
robe così.
Poi di fisso mi chiama anche il Giorgio, che il Natale lo ama tanto
e che emozionato mi fa gli auguri. Poi di solito chiamo la zia Pupa, anche lei
presa con figlie e nipoti. Con lei di solito si festeggia il 26. Mando un
messaggino di auguri ai miei due più cari amici, Richard e Byrne. Rispondono
subito, felici.
Poi le telefonate finiscono, e ritorna la quiete invernale.
Io guardo fuori dalla porta finestra tutta questa solitudine inutile che mi sta
prendendo lo stomaco e mi fa battere il cuore un po’ più forte, spengo la
sigaretta e scendo, cercando di non sembrare troppo triste che poi a Dan
dispiace.
I ragazzi agitati, stanno finalmente riguardando i loro
regali; Dan sta preparando la colazione. Si sente già l’odore del bacon e
quello del caffé. È una bella persona, Dan. Balla in mutande davanti ai
fornelli e mi scappa un sorriso. Per terra ci sono ancora i mille pezzi della
carta dei regali, stracciata, non considerata affatto, malgrado le ore a
impacchettare.
Inizia così, il nostro Natale.
Si cambia scena del film. Si capisce perché, con una nota
ovviamente triste, finisce la canzone di Chet Baker, che lascia spazio a quelle
natalizie, di solito cantate da Frank “The Voice” Sinatra. Attorno al tavolo
della cucina noi cinque mangiamo tranquilli, felici; ci vestiamo senza fare né
la doccia né la cucina e partiamo per andare dalla sorella di Dan, a un’oretta
di distanza, dove ci saranno un altro albero, altri regali, una bella tavola imbandita,
formaggio e crackers come apertivo, buttati giù da un Prosecco fresco. Baci,
abbracci, robe così.
Il Natale lontano da Milano è una delle poche cose che non ho ancora capito come
affrontare senza quel retrogusto di malinconia. Mi tocca sempre andare a fare
una passeggiata da sola, il giorno dopo, per riprendere il ritmo della vita
lontano da tutti loro, sapendo che fortunatamente adesso passa un anno intero prima
di rivedere questo mio film.
Sto subito meglio.
Ti ho scoperta da poco, ti leggo piano piano. In ritardo ti auguro buon anno.
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