Politically correct vs. Charlie Hebdo
Negli Stati Uniti, dove vivo da più della metà della mia
vita, la notizia della carneficina alla sede di Charlie Hebdo e in altre zone
di Parigi, ha ovviamente fatto la sua bella eco, ma non ha colpito le persone
come in Italia: nessuno prima dell’altro ieri aveva idea di cosa fosse questa
rivista, e i giudizi sulla strage si sono basati soltanto sulle vignette pubblicate
dopo l’accaduto, e cioé quelle che prendevano in giro la parte più radicale del
mondo islamico. Quindi la maggior parte dei commenti che ho sentito finora
suona così: mi dispiace per quello che è successo, ma...
Ecco, sono due giorni che penso a quel ‘ma’, perché è come
dire: non sono razzista, ma... oppure: non sono omofobo, ma....oppure ancora: non
dovevano violentarla, ma...
Per capire bene gli Stati Uniti bisogna tener presente una cosa
essenziale della loro cultura: essendo essa una società che da secoli è
multirazziale (anche se poi in parte divisa, ma comunque a contatto con tutte
le culture del mondo), ha imparato che la cosa migliore per assicurarsi il
quieto vivere è cercare di non esprimere pubblicamente le proprie opinioni. Il ‘politically
correct’, negli ultimi anni, ha preso il posto delle battaglie sociali, in
poche, tristi, parole.
Dal punto di vista legislativo, gli Stati Uniti sono avanti
nel salvaguardare la libertà di stampa ed esprimere le proprie opinioni,
sicuramente più della Francia e dell’Italia. Ma bisogna fare i conti con la
decenza, per assicurarsi di non offendere nessuno: essere ‘politically correct’ vuol dire che non è necessario
fare propria l’idea che tutti siamo uguali e che le minoranze devono avere gli
stessi diritti, o che altre culture hanno altri modi di impostare la propria
democrazia. Uno può pensarla come vuole, solo che, per decenza, non deve condividere
il proprio punto di vista su certe cose, e deve capire quando non dirlo. Mi
spiego meglio: si può essere
razzisti, omofobi, antisemiti e o anti islamici, però non lo si deve far
trapelare.
Prendi mia cognata, per esempio: è una persona che non farebbe
male a una mosca, intelligente e sensibile. Ma quando a Natale le ho chieso
dove le piacerebbe fare un viaggio, mi ha risposto, senza sarcasmo o satira:’
In un qualsiasi posto che non sia islamico’. Non le ho ancora parlato di quello
che è successo nella redazione di Charlie Hebdo (che sicuramente lei non
conosce), ma sono certa che direbbe anche lei che è una tragedia, ‘ma’ (ecco il
ma) che erano razzisti e anti islam. Perché un conto è essere anti islamici a
tavola, dopo un bicchiere di troppo di vino, in famiglia; un conto è esserlo in
un contesto di denuncia, in un giornale. Il ‘politically correct’ , in poche
parole, è l‘esatto ossimoro della satira.
Il problema è che, basandosi sul perbenismo, essere
‘politically correct’ funziona fino ad un certo punto, perché, a differenza della
satira, non tiene in conto del contesto. Per esempio, se uno va su CNN e dice
che gli ebrei sono delle merde, offende il popolo ebraico; ma se scrive su un
giornale che fa satira religiosa e politica dagli anni Sessanta e fa una
vignetta in cui dice, durante l’ennesima invasione israeliana nei territori
palestinesi, che gli ebrei sono delle merde, allora la frase ha tutto un altro
peso. Per l’americano per cui il ‘politically correct’ è culto, il contesto non
fa differenza. Per farla breve, il ‘politically correct’ è, a parer mio, alla
base di quel ‘ma’ di cui parlavo prima: la libertà di stampa è sacrosanta, ma
ci sono dei limiti, dettati dal perbenismo.
Leggevo stasera un articolo di fondo sul New York Times di
uno dei giornalisti che più seguo, David Brooks: non lo chiamerei di estrema
sinistra, ma le sue analisi sono sempre sottili e profonde; mi piace il suo
modo di interpretare una notizia, cogliendone i dettagli che a molti sfuggono e
il modo in cui conclude le sue analisi fa sempre pensare. Anche oggi ha fatto
pensare, nella sua analisi sulla strage di Parigi. Anche lui ha messo in
risalto quel ‘ma’. Dice oggi:
“Gli studiosi
saggi e apprezzati vengono ascoltati con rispetto. Le persone che fanno satira
vengono ascoltate con uno sconcertato semi-rispetto. I razzisti e gli antisemiti
vengono ascoltati attraverso un filtro di obbrobio e mancanza di rispetto.
Quelli che voglio essere ascoltati attentamente devono guadagnarselo con il
loro comportamento”
Eccolo qui, il suo ‘ma’: come dire che è triste che siano
stati trucidati, ma avevano mancato di rispetto, per cui che cazzo si
aspettavano?
La satira politica, penso io, fa paura a tutti, ma fa più
paura a chi ha la coda di paglia: gli americani, per esempio, che sono nella
maggior parte dei casi delle bellissime persone, ma (eccolo, il mio ‘ma’ della
serata) che dal punto di vista di politica estera assomigliano molto più a una
dittatura che a un Paese contemporaneo, gli americani, dicevo, forse temono la satira
perché sanno di essere degli obiettivi facilissimi per chi, come Charlie
Hebdo, non si fa nessuno scrupolo a denunciare Abu Gherib, Guantanamo, le varie
guerre per il petrolio, le vendite di armi ai gruppi rivoluzionari anti
comunisti e molto altro. Diciamocelo: quel "ma" americano, dopo tutto, non è
neanche questa grande sorpresa.
Mi fa tristezza, quasi più di tutta questa tragedia, quando
mia figlia mi viene a dire che Charlie Hebdo era un giornale razzista. Perché
lei, quindicenne americana, che ne sa di una rivista di satira politica francese?
Lei ha semplicemente imparato, vivendo qui, che andare apertamente controcorrente, buttare in faccia la propria opinione, magari in modo sarcastico, scomodo, denunciare senza
peli sulla lingua le ingiustizie del mondo, è cosa da evitare. Ho tentato di spiegarle,
cercando di farle capire cosa vuol dire satira: fare incazzare, ma anche far pensare. E ho aggiunto che anche Marjane Satrapi, quando ha scritto Persepolis,
che lei ama tanto, ha fatto satira, e cioé ha osato prendere per il culo il
regime iraniano.
Ma non so se sono riuscita a convicerla. E quando ha preso la
porta per andare a scuola, il click della serratura mi ha fatto male. Hanno vinto gli americani con il loro politically correct
del cazzo, anche su mia figlia.
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