Sul Giorno della Memoria: una foto
Un pomeriggio di tanti anni fa, era freddo, e io e Dan eravamo
andati a trovare i suoi genitori. Chiacchierando in sala, non ricordo come, avevamo
cominciato a guardare degli album di fotografie che tenevano nell’armadio dei
cappotti.
Erano quasi tutte fotografie in bianco e nero, di ricordi
lontani, e di posti ancora più lontani. La madre di Dan, nata dopo che i suoi
otto fratelli erano ormai grandi, non aveva più nessuno di vivo da parte sua,
diceva. Mi faceva vedere le poche foto che le erano rimaste di sua madre,
Rebecca: un viso duro, segnato da nove gravidanze e da una vita passata a
Chicago, a litigare, rigorosamente in yiddish, con suo marito, che tutti dicono fosse un
burbero.
Diceva che la sua famiglia veniva dalla Prussia, e questa
parola, che suona antica, di libri di storia delle medie, mi ha sempre un po’
colpito: mi sembrava che il tempo si fosse fermato a quelle foto, a quel
periodo storico. Diceva 'Prussia' forse perché era così che la si chiamava a casa
sua, prima che diventasse Polonia, Lituania o quel che è adesso. Prussia. In
realtà poco importava alla sua famiglia o agli ebrei in generale il nome dello
Stato in cui abitavano: loro non erano prussiani, ma ebrei, dovunque fossero.
Avevano le loro tradizioni, la loro lingua, la loro comunità che mantenevano
vive, e che non erano le stesse
del posto.
Anni prima dallo scoppio della seconda guerra mondiale, i nonni di Dan
decisero di venire in America, lasciando in Prussia il resto della famiglia:
genitori, fratelli (tanti), sorelle (altrettante), nonni, zii, cugini. La loro
comunità intera. Credo che Hymen, il nonno, che lavorava in una fabbrica di
cappotti (cuciva le tasche) all'inizio avesse fatto il contrabbandiere o
cose del genere. Era arrivato a Chicago, e si era sistemato nel quartiere ebreo
della città, dove aveva trovato lavoro, casa e aveva fatto tutti questi figli.
Senza essere troppo praticanti, mantennero comunque le
tradizioni ebraiche e la loro casa era tenuta rigorosamente kosher: c’erano due
set di piatti, due di pentole, due di posate e così via. Uno lo si teneva
soltanto per lo shabbat del venerdì sera, quando si accendevano le candele e non
si poteva usare nulla di meccanico. Era il servizio speciale, da non mischiare
con quello di tutti i giorni, considerato meno sacro. Avevano insomma portato
pari pari tutte le loro usanze dal vecchio continente, come tutti i loro
vicini, immagino. Per cui, malgrado vivessero a Chicago, avevano
cambiato ben poco. Un po’ come quando arrivarono gli italiani, o i cinesi, che
rimanevano nel loro quartiere, senza il bisogno o il desiderio di integrarsi.
Una differenza sostanziale c’era, però: loro si salvarono
dall’olocausto, mentre tutti gli altri furono portati nei campi di
concentramento con i treni che si vedono nei documentari, e uccisi nei forni crematori. Tutti. Non ne rimase vivo neanche uno.
Quel giorno freddo a casa loro, quando si erano tirati fuori
gli album delle fotografie, la mamma di Dan mi raccontava tutte queste storie.
Poi girò la pagina dell’album e al centro c’era una foto grande. Ci saranno
state una sessantina di persone: anziani seduti sulle sedie, mamme con in braccio
dei bambini, uomini di ogni età, piccini che non riuscivano a stare fermi per un secondo per fare la foto. Un'immagine di famiglia di quelle di una volta, contadine. Erano in un
cortile grande, dietro loro un palazzo fatto di mattoni. Sul lato sinistro, un
cane bianco che aveva deciso di passare proprio sul click del fotografo.
Osservai a lungo quel ritratto di famiglia, immaginando il fotografo
dietro la macchina, che dava gli ordini, diceva di star fermi. "Tu che sei più
alto vai dietro!", "Dì alla bimba di venire a sedersi davanti, con gli altri", "Tutti pronti!". Cose
così. Quasi tutti gli uomini avevano la barba e sembravano un po' severi, ma a qualcuno scappò un mezzo
sorriso.
Cercavo tra loro di vedere delle somiglianze con i miei
figli, o con Dan: in fondo erano cugini, il DNA era quello. C’era una bimba che
aveva il caschetto proprio come quello che portava Sofia, ma le fattezze del
viso erano sfuocate. Un’altra era intenta a giocare con una bambola che teneva sulle ginocchia, e aveva la testa
chinata, per cui non la si poteva vedere bene. Un bimbetto con i pantaloni
corti era girato di profilo. Avrebbe potuto assomigliare a Dan, non so.
“Sono i miei
parenti. Sono tutti morti nei forni crematori”, disse la mamma di Dan. Mi ricordo il pugno nello stomaco che sentii quando me lo disse.
Cercai quella fotografia qualche anno dopo, quando morirono
i genitori di Dan e dovemmo svuotare la loro casa. So che è in giro, e
vorrei tanto averne una copia. Per non dimenticare, mai, che se avessero deciso
di rimanere lì, anche Rebecca e Hyman sarebbero stati immortalati in quella immagine. E chissà che fine avrebbe fatto, questa fotografia: certo non sarebbe in
un album tenuto in un armadio del Massachusetts. E oltre a questa foto, non
ci sarebbero neanche Dan, o Luca, o Sofia, o Emma.
Vorrei tanto averne una copia, per non dimenticare niente quel momento immortalato nello scatto, quelle facce, quelle mani, quelle vite.
Per ricordarmi di non dare più nulla per scontato, mai.
(Nella foto: Dan e la sua mamma)
Grazie. Per ricordare di non dimenticare.
RispondiEliminaElisheba
Vi auguro con tutto il cuore di ritrovare quella foto! Marilena
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