It takes a village
Come accade quasi sempre quando si vive in un posto da anni,
la zona in cui si abita diventa casa e la via in cui si abita diventa un po’
famiglia.
Noi abitiamo in Prince street da otto anni, in una casa che
avevamo venduto quindici anni fa per andare a vivere a New York, ma che per una
situazione assolutamente unica, al nostro ritorno dalla Grande Mela, abbiamo
ricomprato. Quando siamo ritornati, abbiamo trovato gli stessi vicini che
avevamo lasciato anni prima e con cui avevamo legato.
Due famiglie, una a destra e una a sinistra. Quella a
sinistra era una famiglia un po’ anomala: lei, nevrotica e senza nessun pelo
sulla lingua, ossessiva e logorroica, è cinese, ma era cresciuta in Malesia, e
lui, un sant’uomo inspiegabilmente innamorato follemente di lei, è un americano
bianco del Midwest. Tutti e due musicisti laureati a Berkley College. Quando
siamo tornati, anni dopo, avevano mollato la loro ossessione per i due gatti e
avevano fatto due figli, più giovani dei miei. L’anno scorso hanno venduto casa
e adesso ci abita una signora distinta ma solitaria e silenziosa.
L’altra famiglia ha più cose in comune con noi: anche loro
sono musicisti (lui compositore e lei pianista), ma fanno altri lavori, tutti e
due in università. Di una decina d’anni più grandi di noi, erano riusciti ad
aver figli grazie all’inseminazione artificiale. Io e lei siamo state incinta
insieme e abbiamo passato tantissime giornate intere a chiacchierare. Lei
aspettava due gemelle, che sono nate qualche mese prima di Sofia. Abbiamo
ancora foto delle tre bimbe piccoline insieme sul tappeto della sala.
Poi siamo andati via e non li abbiamo più sentiti fino a
otto anni fa, quando durante il trasloco le tre ragazze si sono ritrovate e da
allora non si sono più separate. A loro si è unita Pia, della stessa età, che
abita nel palazzo di fianco. A loro quattro si è unito poi un bambino che abita
alla fine della via. Inseparabili e effettivamente ossessionati dalla loro
voglia di stare sempre insieme, fantasticavano tunnel da costruire nei
seminterrati che unissero le loro case per poter vivere insieme. Malgrado le
mille litigate tipiche dei bimbi di quell’età, non c’è stato un giorno nella
loro vita da otto anni a questa parte che non si siano visti, o per lo meno
sentiti. Noi, i genitori, abbiamo legato moltissimo e siamo diventati a tutti
gli effetti una comunità compatta.
In questi anni sono poi successe tante cose della vita: uno
dei papà è morto di cancro, cosa che ha sconvolto profondamente tutti per anni.
Io, che ho perso il papà quando ero ragazzina, sono stata scelta come surrogato
di mamma e per stare il più possibile con Pia, che a nove anni aveva soltanto paura e bisogno di
essere abbracciata. Ancora adesso dice sempre a sua mamma che io sono la
seconda persona più importante della sua vita. Cosa che, modestamente, mi
commuove ogni volta. Poi i genitori delle gemelle si sono lasciati, dopo
diversi mesi di confusione, offuscati dal troppo vino bevuto insieme in
terrazzo e dalle sigarette spente nel mio portacenere con rabbia e dolore.
La mamma di Pia si è risposata l’anno scorso in Danimarca e
tutti i ragazzi hanno fatto il viaggio insieme e condiviso una stanza in un
albergo-castello fuori Copenaghen, ridendo sempre. Le gemelle sembrano aver
superato bene sia la separazione che poi il divorzio. Nei momenti difficili i
cinque amici hanno sempre creato attorno a loro una barriera protettiva e
affettuosa. Di una sincerità quasi disarmante.
Poi per qualche anno ha regnato una discreta calma: noi
genitori ci vediamo quasi tutti i venerdì perché facciamo a turno a fare una
cena. Stasera per esempio tocca al mio vicino, il papà delle gemelle. La
settimana scorsa era la volta di John e Cate. Io e Dan a dire il vero non
partecipiamo tanto, perché spesso il venerdì sera andiamo a Becket, ma quando
ci siamo, passiamo sempre i venerdì sera con loro.
I ragazzi sono tutti grandicelli: chi si cimenta con la
chitarra, chi all’atletica leggera, chi con la palla da basket, chi comincia a
far teatro con la scuola. Sofia ha deciso di iscriversi al roller derby e da
sempre si batte per i diritti dei transgender e degli omossessuali. Insomma, fanno
tutti cose diverse. Ma ogni sera si incontrano o qui o da qualcun altro, o
soltanto su Skype. L’affetto è quasi esagerato, come esagerati sono tutti i
sentimenti a quell’età.
Poi bum: l’altro giorno uno di loro tenta il suicidio. Ambulanza, pronto soccorso, poi ospedale psichiatrico poi chissà cos’altro. Sale il panico tra
tutti, grandi e piccoli. Le lacrime si sprecano, i sensi di colpa per non
esserci accorti che stava male, il terrore di dover affrontare anche questa
cosa enorme che è capitata nella nostra via, che apparentemente è tranquilla ma
che dietro ogni porta nasconde anche triestezze, solitudini, paure.
I ragazzi si sono subito movimentati per cercare di capire,
per come fare a stare tutti vicini e uniti in questa ennesima deviazione di
happy family. All’inizio noi grandi pensavamo di non condividere i dettagli, ma
a loro non servono i dettagli: non li hanno neanche chiesti. A noi, dico. Il
tam tam nei loro telefonini è scattato a nostra insaputa, e la rete di
protezione è già forte, salda. Senza panico e senza retorica. Lì, dove è sempre
stata: la ritirano fuori, la loro rete, con gli stessi gesti che fanno i pescatori che dividono una barchetta e un obbiettivo comune.
Questi nostri quindicenni di Prince street sono cresciuti
con un esempio di comunità che li distingue, mi pare. Malgrado le scelte
sbagliate, i momenti orrendi che sembrano senza speranza, loro cinque si tirano
su le maniche e entrano nel cuore di noi grandi, ognuno con i propri strumenti
e le proprie armi.
Nel dolore e nella tristezza del momento, non posso fare altro che fissare quella punta di fierezza e di ottimismo che spunta. Sempre, in
questi casi.
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