Super Bowl: the spirit of America
Sono cresciuta in una famiglia in cui, malgrado il lavoro di
giornalista sportivo di mio padre, non si è mai parlato di sport. Famosa è
infatti la domanda che mia madre fece a mio padre in macchina: “Ma cos’è questo
obrobrio architettonico?” Era San Siro, che adesso si chiama Meazza. Per dire.
Una cosa però l’avevamo capita: la palla, perdio, è rotonda.
Anche queste certezze vengono a mancare quando, come me, si
attraversa l’Atlantico: si scopre che qui il calcio si chiama soccer e che ci
giocano soprattutto le bambine, mentre il football è lo sport per eccellenza:
sono degli energumeni vestiti con le collant (giuro) che se le danno per un
uovo di pasqua. Stranissimo.
Poi una volta all’anno questi energumeni fanno la partita
finale. La gara si chiama il Super Bowl, che tradotto vuol dire super
insalatiera, per cui credo che in realtà sia intraducibile.
Io che vivo qui dal 1991 non ho ancora capito le tantissime
e complicatissime regole del gioco, ma una cosa mi è chiara: non è
semplicemente una finale sportiva, ma un evento culturale, seguito, mi giura
Wikipedia, da centosessantasette milioni di americani. In Italia, lo dice
sempre Wikipedia, siamo in sessanta milioni settecento settanta mila, per
capire la grandezza. Alla serata del Super Bowl sono legate tradizioni che
rispecchiano senza possibilità di fraintendimenti quelle statunitensi.
La prima tradizione è legata, come tutte le altre tradizioni
americane d’altronde, al cibo e alla birra. Il Super Bowl è un’occasione per
mangiare il fingerfood: alette di pollo cotte nella salsa al barbeque, patatine
imbevute in salsine a base di formaggio fuso e panne strane, guacamole e salsa,
pop corn e come gran finale una torta a forma di palla da football. Calorie:
tot indecifrabile, di gran lunga superiore a 6000. Il tutto condito con fiumi
di birre: le persone più mainstream berranno Coors light e Budweiser
(praticamente acquetta), mentre chi ha il palato più fine degusterà birre organiche
o fatte in quantità limitate e, per l’occasione, carissime.
La seconda tradizione sono gli spot pubblicitari tra una
pausa e l’altra del gioco, che è tra l’altro, infinito, e ti fa apprezzare la
regola sportiva molto più civile dei i famosi novanta minuti e poi tutti a casa
propria. Lo Washington Post mi confida che quest’anno il canale più seguito,
CBS, fa pagare tre milioni e ottocentomila dollari per una pubblicità di trenta
secondi, cifra che fa girare la testa e anche un po’ le palle, visto che
potrebbe invece essere spesa per risolvere problemi più seri che la vendita di
prodotti pro-testosterone. Infatti, la maggior parte delle pubblicità sono di
birra e macchine, e spesso sono intrise di messaggi subliminali o meno a sfondo
sessuale. Perché il football è uno sport da veri uomini (collant a parte,
dico).
La terza e ultima tradizione è quello che succede tra un
tempo e l’altro: il famoso halftime. Personalità commerciali come Madonna o
Janet Jackson (che un anno ha fatto scalpore perché ballando ha mostrato un
capezzolo) sono spesso le favorite ma non dimentichiamoci che guru musicali
comei Rolling Stones (2006), gli Who (2010), James Brown (1997), addirttura
Bruce Springsteen the Boss (2009) hanno ceduto alla godura di essere visti dai
milioni di spettatori e si sono umiliati su quel palco messo in mezzo al campo.
Poi ci sono i fuochi artificiali, i balletti coreografati, e tutte le
americanate più kitch che questo grande paese ha esportato nel mondo (thank you
very much).
Per le majorette, invece, scrivo un pezzo a parte.
(pezzo pubblicato sul sito della Smemoranda un po' di tempo fa)
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