Morte annunciata di un molare
Stamattina l'appuntamento era per le sette meno un quarto, ma invece io sono arrivata che erano le otto passate. Il dentista e l’assitente mi aspettavano in quella
stanza là dietro, quella con la porta, che usano per gli interventi. Io, reduce di
un’ennesima litigata con Dan, avevo la testa in altri pensieri e non ero
preoccupata di quello che sarebbe successo dietro a quella porta, e neanche del ritardo, di cui
infatti non mi sono scusata.
La devitalizzazione di un dente, mi ha spiegato il dentista
giovane, vuol dire praticamente ammazzarlo. Un piccolo delitto annunciato
dentro la mia bocca. Mi ha fatto vedere la radiografia, che sembrava proprio il
disegno tipico del dente con le sue due belle radici, che se ci si pensa è un po’ come il tronco di un albero, le mie gengive erano la terra. Mi ha spiegato,
dopo avermi fatto una puntura di anestesia con quella loro siringa d’acciaio,
che avrebbe dovuto bucare la corona del dente, entrare fin dentro le radici,
devitalizzarle, metterci anche una medicina contro le infezioni, e poi
richiudere il tutto. Ci avrebbe impiegato un’oretta, ha concluso soddisfatto. Io
ho subito pensato che, oltre all’ennesima litigata, oltre alla
devitalizzazione, oltre alla pioggerellina di merda che scendeva stamattina,
avrei anche preso una multa, visto che il parcheggio che avevo trovato sarebbe
scaduto prima della fine dell’intervento.
Mentre aspettavano che l’anestesia facesse effetto, il
dentista giovane e l’assistente si sono messi a chiacchierare del
finesettimana: lui ha portato i genitori a New York, a vedere un musical su
Peter Pan che aveva già visto a Boston. Dice che la produzione di Broadway
è molto più sofisticata, anche perché hanno speso dieci milioni di dollari
invece dei tre dello spettacolo qui in città. L’assistente, con un accento
marcatamente inglese, faceva finta di essere interessata, ma si capiva che non
gliene poteva fregare di meno.
La parte destra della mia lingua e delle mie labbra ad un
tratto sembravano gonfie. Mi sono toccata la guancia e mi sembrava di aver
toccato quella di un’altra persona, perché non ho sentito niente. Ho subito
pensato che la morte deve dare la stessa sensazione: la gente ti tocca e tu non
senti più nulla.
Gli attrezzi erano tutti pronti su un vassoio ricoperto di
carta bianca. ‘Ci siamo’, ha annunciato il dentista giovane. Mi ha messo una specie di
maschera/scudo davanti alla bocca, con un buco per il dente da ammazzare, e a
me è venuta subito l’ansia da claustrofobia, di cui soffro. L’assistente
inglese mi ha dato un paio di occhiali da sole, per ‘protezione’, anche se non
ho capito da cosa. Forse dagli schizzi di sangue e acqua? Non so.
Non sapevo
cosa aspettarmi da quest’ora in cui ero assolutamente alla mercé di questi due
perfetti sconosciuti. Da quando mi hanno messo la mascherina, non ho potuto più
parlare. Ho potuto solo pensare, cosa invece che cercavo assolutamente di
evitare. Il rumore del trapano è assordante, ma per distrarmi cercavo nelle
macchie del soffitto delle forme: quella potrebbe essere il profilo di un
bambino; quella un elefante. Ma invece no, non ci ho trovato niente.
Ho pensato che siccome avevo gli occhiali da sole, potessi
piangere senza che mi vedessero. Piango quasi sempre, in questi giorni. Ogni
volta che sto ferma, senza fare niente di speciale, mi cade una lacrima,
involontariamente. Sentivo appunto che se stava formando una nell’occhio destro,
sentivo che, gonfia, aveva cominciato la sua discesa inarrestabile. Mi sembra
anche di aver sentito la goccia salata fare toc sula carta che avvolgeva la
testata della poltrona.
“Tutto ok?” mi ha chiesto il dentista giovane. No, niente
ok, ma non è colpa sua, volevo dirgli. Fortunatamente non potevo parlare,
per cui ho fatto occhei con il pollice e lui mi è sembrato contento così. Il
magone da buttare giù quando si ha un trapano dentro un dente, ho scoperto
oggi, è un inconveniente inaspettato, ma in qualche modo risolvibile: bisogna tener duro fino al momento in cui finisce di trapanare e si manda giù come se fosse un boccone
normale. Delle lacrime che hanno bagnato le mie orecchie non se ne è più
parlato.
Poi il dentista giovane mi ha detto ‘all done’, e io mi sono
alzata, ho ringraziato e ho salutato. Ci vediamo tra due settimane, mi ha ricordato.
Se le fa male, prenda un antidolorifico. Se le fa molto male, mi chiami. ‘No
problem, davvero’, gli ho detto fingendomi forte.
Fuori aveva smesso di piovere. Metà della mia bocca era
ancora addormentata, come distaccata dal resto della mia faccia. Con molta
lemma mi sono avviata verso la macchina, senza multa, ho messo la prima e sono
venuta a casa. A scrivere.
Sono solo le nove emmezza e ho già fatto ammazzare un dente
da uno sconosciuto, ho già fatto i miei primi pianti, e ho già scambiato
messaggi con Dan, che sembrano virare verso una seppur sofferta riappacificazione.
Non mi resta che farmi un caffè.
...ti adoro Marina, che meraviglia che sei!
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