La festa della mamma e il volo dei figli
L’altro giorno mia sorella Anna ha trovato una fotografia di mio papà piccolino che passeggiava per la strada con la sua mamma, e mi ha fatto pensare a cosa vuol dire essere mamma. Pensavo che non è vero che il lavoro più antico del mondo è la prostituzione, ma è l’essere genitore e che in questo lavoro più antico, il ruolo della mamma è forse il più importante.
Il fatto di essere allo stesso tempo figlia e mamma, è
un po’ come essere allo stesso tempo il soggetto e il complemento oggetto di
una frase; la vittima e l’assassino di un omicidio; il gioco e il giocoliere di
un circo; la persona e il personaggio di un pezzo teatrale pirandelliano; il seme e l’albero del bosco dietro la casa di Becket. Essere
partorita e partorire, la tabula rasa e la mamma che spinge fuori. E
questo doppio ruolo mi travolge ogni volta che ci penso.
Pensavo, stamattina, a quando ho partorito i miei tre figli. Alcuni
cercano di poetizzarlo, ma a pensarci bene il parto è in fondo un rigetto: il
mio corpo li ha spinti fuori da me, tutti e tre, con tanto di sangue, dolore,
lacrime. E poi invece del pus di un brufolo schiacciato, tutte e tre le volte
mi sono ritrovata con una vita davanti a me, creata dal mio corpo, sporca di
liquido amniotico e pronta per assorbire tutte le sensazioni. Un concentrato di
opportunità, di possibilità. Una tabula rasa. L’unica cosa che si sa fare
appena nati è respirare: si è imparato a farlo da qualche secondo. Il resto non
si sa. Non si sa di essere sul pianeta Terra, non si sa di essere esseri umani,
non si sa che esistono le case, i cani, le leggi, le feste, le matite senza
gomma, il vino buono, la crème brulé. Niente. Assolutamente niente. E sta alla
mamma dare tutto, dalla prima goccia di latte alla prima carezza, per far capire
la profondità di un gesto d’ amore. È una roba enorme, partorire: con il
bimbo si partorisce anche la responsabilità per una vita umana. È brutto che non ci si
ricordi il momento in cui si è nati, la prima folata di ossigeno nei polmoni,
la prima cosa che si è visto. Io sono stata quella bimba tabula rasa e sono
anche stata la mamma che l’ha spinta fuori.
La distinzione tra essere figlia e essere madre però c'è e si trova secondo
me proprio in questo concetto di rigetto: quando si è madri bisogna accettare
il fatto che prima o poi il rigetto che è sfociato nel parto, si
paga, arriva il conto e cioè il momento in cui bisogna lasciarli andare, questi figli che
invece per istinto vorresti proteggere per tutta la vita. Vorresti poter sempre
prendere le decisioni importanti per loro, per far evitare errori, delusioni,
solitudini. Vorresti scegliere per loro gli amici, la scuola da fare, il lavoro
da prendere, il compagno con cui stare. E invece questa volta tocca a loro
rigettare te, che rimani sul divano della sala a combattere questo istinto e
lasciarli volare via, perché se non li fanno con le loro gambe, tutti questi
errori, non impareranno mai. Lo sai, anche se poi singhiozzi.
Te lo spiegano i figli, a modo loro, quando sono pronti per il
loro primo volo: è quando ti chiedono di chiudere la porta della loro camera,
quando sono tristi e tu chiedi come mai e loro dicono: ‘non capiresti’. Quando
chiedi cosa hanno fatto a scuola e rispondono ‘niente’. È il loro modo di dirci
di starne fuori: quello è il loro mondo, solo loro e noi non siamo invitati a
nessun giro di giostra, thank you very much.
Ma fino a un certo punto, fino a quando cioé vengono a
chiederti consigli e tu a quel punto ti senti per un attimo al centro di quel
mondo estraeno, da cui sei stata messa da parte. A quel punto devi far finta di
capire cosa sta succedendo, decifrare le frasi spezzettate tra un singhiozzo e
l’altro. Ti viene fuori un ‘non ti preoccupare, adesso ci ragioniamo insieme. I
am here for you’, perché sai che è una frase generica, ma che probabilmente
funziona.
È brutto, il rigetto. Salutare, importante, segno che
abbiamo fatto un buon lavoro a insegnare l’indipendenza e la stima, ma è brutto
esattamente come era brutto il rigetto di quello che ti piaceva in spiaggia,
quando verso la fine della vacanza raccimolavi tutto il coraggio per dirglielo e
lui cadeva dal pero e diceva: ‘tu no, non mi piaci’. Un dolore antico. Accecante e
indelebile.
Però poi, quando ci penso bene, è anche bello vederli
volare via, tutti e tre i miei ragazzi con il loro stile diverso di volare, con
ognuno il proprio mondo: Luca spicca il volo da un gradino basso, con quel suo
modo goffo che ha di trapassare la quotidianità, che lui trova geniale e
allegra. Oppure Sofia, che invece sceglie un ramo alto, con quella fierezza che porta negli
occhi mista alla sua timida emotività che la rende in parte fragile e in
parte più matura di me e Dan messi insieme (come ha giustamente detto Dan
l’altra sera). E infine la mia piccola Emma, che vorrebbe spiccare il volo dalla nuvola più
alta del cielo anche se soffre un po’ di vertigini, che affronta la vita di
petto, con il coraggio e la curiosità di un cucciolo che sta per diventare
grande.
Guardavo la fotografia che ha trovato mia sorella Anna,
quella di mio papà piccolo e di mia nonna che gli tiene la mano e pensavo che anche se crediamo tutte noi mamme di essere originali, sicuramente anche lei da mamma avrà
provato esattamente le cose che poi ha provato mia di mamma e che provo io
adesso: il rigetto, la protezione dal mondo misti alla fierezza del volo, e
penso che è una tragedia che la Perugina o chi per essa abbia rubato a noi
l’opportunità di festeggiare la festa della mamma con delle riflessioni
profonde, importanti.
Che propongo a voi oggi, con un po’ di magone ma con la
fierezza di una leonessa.
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