La foto
Seguo con frenesia il dibattito sulla foto. E più leggo e più non riesco a capire se sia giusto o no mostrarla. Ho scritto alle sorelle e al Giorgio per sapere cosa ne pensano loro, perché capisco tutti e due i punti di vista. Ma il mio cuore vaga lontano dalla ragione.
Capisco perfettamente che il potere di un’immagine vale molto
più dei milioni di articoli messi a nostra disposizione negli ultimi quattro
anni sulla drammatica situazione siriana. Articoli che non tutti abbiamo avuto
voglia di leggere. Forse. Non so.
Poi c’è il discorso sacrosanto, un po’ quello di Charlie Hebdo,
sulla libertà di stampa: se un giornale o un individuo vuole, può stampare quello che vuole,
perché grazie a Dio abbiamo (quasi) superato tutti i divieti che il nostro
regime fascista e la Chiesa avevano imposto all’informazione, ma anche
all’arte. Dire di non voler vedere un’immagine spiattellata ha sempre un
retrogusto di censura, che io aborro per principio. Facile, troppo facile, dire
che si può mostrare tutto, e poi lamentarsi se una certa immagine offende.
Infine è giusto dire che le immagini raccapriccianti dell’11
settembre, dell’Olocausto, del Vietnam, della piazza Tienammen hanno
profondamente sensibilizzato l’opinione pubblica e forse sono servite per dire
basta. Anche se poi non so quanto siano effettivamente servite a portare pace.
Per cui capisco perfettamente chi dice che l’immagine va
pubblicata: diventa lo strumento di sensibilizzazione , il simbolo di un
conflitto orribile, sbagliato come lo sono tutti questi conflitti. Diventa vero
perché ne abbiamo visti a migliaia di morti annegati a Lampedusa, galleggiare
nel nostro mare. Ormai la morte in diretta la vediamo quotidianamente. Eppure c’è qualcosa di molto più grave se l’immagine è quella di un
bambino, con le scarpe, i pantaloncini. L’innocenza, forse. La catastrofica
distruzione di una vita che non ha avuto tempo di essere vissuta.
Poi però bisogna fare i conti con altre cose, altrettanto
importanti a mio parere. Per esempio chiedersi in coscienza, se basta mettere
una foto su facebook per sentirsi coinvolti in un conflitto che per anni ci ha
a malalpena sfiorati. Se basta stare in pigiama sul divano comodi a parlare di
atrocità, come se d’un tratto il cadavere di un bambino ci facesse diventare
tutti più indignati, senza spostarci da casa. Mi chiedo quante delle persone
giustamente indignate (e mi ci metto dentro io per prima) abbiano davvero
cercato di fare tutto il possibile per sensibilizzare il mondo attorno alle
arocità che accadono quotidianamente e hanno deciso che l’ultima risorsa dopo
tanti tentativi da parte loro, sia davvero questa.
Mi chiedo anche se i genitori di quel bimbo avrebbero voluto
la morte in diretta, tra piatti di
pastasciutta e foto dei gattini su facebook. Lo sanno, lo sapranno mai i
parenti di quei bimbi quello che stiamo facendo noi, forse per espiarci della
grandissima colpa di non aver fatto un cazzo fino ad oggi, che la morte del loro
piccolo è diventata virale, e che tra qualche giorno ritorneranno i gattini e i
selfie? Non lo so.
Poi mi chiedo se persone come me, che non faccio un cazzo
per occuparmi di quello che succede nelle zone di guerra ma che sono
profondamente pacifista, abbiano davvero bisogno di vederla, questa foto, e
cosa scaturisce dal punto di vista personale, in che senso mi
offende. Qual è il mio bagaglio personale che quest’immagine colpisce.
A me personalmente, per esempio, non ha fatto venire in mente la guerra in
Siria. A me ha fatto venire in mente il corpo del mio bambino galleggiante in
una piscina, apparentemente senza vita. Era vestito uguale: scarpine,
pantaloncini, maglietta. Aveva la stessa età. Noi siamo riusciti a salvarlo in
extremis, e ci riteniamo per sempre fortunati. Ma l’immagine di un corpo di
bimbo annegato a me colpisce subito per la mia esperienza personale, e non
riesco a staccare l’immagine di Luca galleggiante da quella del bimbo siriano.
Non mi sensibilizza alla guerra. Mi fa rivivere il momento in assoluto più
orrendo della mia vita. Mi fa pensare alla sua mamma.
E poi penso alle mamme che ho conosciuto, che hanno perso
dei figli. Loro quando vedono un bambino morto sulla loro pagina facebook,
pensano al conflitto bellico in Medio Oriente o ai loro bimbi morti di cancro?
Non credo.
I meandri della mia mente mi hanno subito riportato
all’immagine che più mi ha colpito in questi anni usata per descrivere una
tragedia: la copertina tutta nera del New Yorker dopo l’undici settembre, quella con le due torri di sottofondo, che si vedono se ci fai bene attenzione..
Perché in quel nero ognuno ci vedeva il proprio orrore, ci stampava il proprio
sgomento. Perché il nero è morte, è paura, è mancanza assoluta di speranza. Un’immagine
che ho trovato davvero devastante. La sua forza era nel suo eterno silenzio,
quello freddo, che si sente dopo la morte. Senza protagonismi, senza gara di chi ha
sofferto di più.
Cerchiamo di pensare al dolore e non alla fotografia, come
dice giustamente il mio amico Christian. E forse questa è la lezione che ho imparato da
questo dibattito che sta infuocando i social network.
Vi abbraccio tutti, forte.
Sono anch'io confuso , ma forse il commento piu' pertinente e' stato quello udito ieri nella trasmissione radiofonica di Gianluca Nicoletti ove un esperto di comunicazione sosteneva che abbia piu' a che fare con la "Pornografia" che come tale da' assuefazione da cui il bisogno di dosi crescenti di esposizione .
RispondiEliminaRimane il fatto che le dimensioni della tragedia in corso nel mediterraneo sono oramai di dimensioni bibliche , inutile pero' essere ipocriti , il sistema di economia capitalistica ha creato i presupposti , la coperta e' corta e i problemi del sistema sono enormi come ci,stiamo,rendendo conto anche noi europei della "moneta unica"
Con stima