Siamo arrivati a questo, in America







Qualche giorno fa ho lasciato ancora una volta la mia famiglia: Dublino, poi Milano, poi Cagliari, poi Bologna, poi ancora Milano e Dublino e infine, casa. Devo ammettere che dopo anni di viaggi solitari in posti da me poco conosciuti, questa volta mi è un po’ spiaciuto partire, per motivi probabilmente ormonali più che altro. Ma la mattina di lunedì, quando Emma si è intrufolata nel lettone, ancora calda di sonno, si è avvinghiata a me e con la voce ancora un po’ roca mi ha detto: “Mommy, please don’t go”, mi è salito un po’ di magone. Poi invece si è vestita, è andata a scuola da sola, e dopo qualche minuto se ne sono andati anche Sofia e Luca, e poi Dan, dopo un abbraccio forte e un bacio malinconico. Io ho fatto la valigia di fretta, ho incontrato il mio carissimo amico Richard a pranzo e Cristina è passata a prendermi per portarmi al Terminal E dell’aeroporto di Boston.

Ora sono qui, in una Cagliari stupenda e soleggiata. In due giorni ho già incontrato venti persone eccezionali, con cui vorrei passare ancora tanto tempo assieme. Poi, e soprattutto ho rivisto Pinuccio Sciola, una persona straordinariamente splendida, scultore e punto di riferimento per l’isola sarda tutta, che oggi pomeriggio  mi viene a prendere e mi porta a San Sperate, dove mi mostrerà le sue opere maestose e emozionanti di fronte a un falò immenso, una specie di cerimonia che piace fare a lui quando rivede i suoi cari amici. Non lo vedevo dal 1980, e forse era rimasta l’unica cosa da fare per la prima volta dopo la morte di mio padre. Abbiamo pianto tutti e due, abbracciandoci. Sentivamo tutti e due la mancanza di papà, in modo uguale e pungente.

Cagliari mi sembra lontana duemila anni luce da Cambridge, dal mio mister Shmoo, dalle mie bambine e da Dan. Dal giorno della mia partenza sono successe due cose difficili, da quella parte dell’oceano, una che ha avuto eco internazionale e una, forse più spaventosa per me, locale. La prima è l’ennesima strage di innocenti, in California: questa volta sono 14 i morti ammazzati che la mattina si erano alzati pensando già a cosa fare per il finesettimana, o a Natale. È successa in un centro per persone disabili, cosa che mi ha ulteriormente colpito, data la mia storia personale. È come se davvero non si riesca a trovare un luogo sicuro da nessuna parte. Non ci sono, che io sappia, notizie di persone autistiche o Down o altro che fanno stragi. Sono davvero le persone più pacifiche che si possano trovare sulla faccia della Terra. E anche loro, con tutti i loro ovvi limiti, si trovano al centro di una strage.

La seconda mi tocca ancora più da vicino: continuo a ricevere email dal sovrintendente del distretto scolastico di Cambridge che annuncia con orrore prima uno poi due poi tre e con oggi quattro email anonime che preannunciano una sparatoria nelle scuole che frequentano le mie due figlie. Questa l'ultima, di stamattina: http://www.cambridgema.gov/alerts/alerts2015/cpsdemailthreats12315 

Leggo preoccupata della risposta della polizia: pattugliamenti in ogni angolo delle scuole, agenti davanti all’entrata che controllano gli zainetti dei ragazzini impauriti e dei genitori, altrettanto impauriti. Presenza massiccia semi-militare nelle scuole di Cambridge. Ansia degli insegnanti, dei presidi, dei genitori e degli studenti. Panico generale. Leggo su Facebook commenti di amici genitori di compagni di Emma che si chiedono se valga la pena che i figli vadano a scuola in questi giorni, non tanto (ma anche) per paura di un’ennesima strage, ma per non spaventare i ragazzini con tutte quelle pistole dei poliziotti in massima allerta terrorismo. Come ci si può concentrare, come si può lavorare, come si può imparare in un ambiente soffocato dalla paura?

Siamo arrivati a questo, in America: i ragazzini una volta al mese fanno le prove di lockdown, che vuol dire che fingono che ci siano dei terroristi che li vogliono ammazzare: vengono istruiti di nascondersi in un’aula, dentro gli armadi a muro, e di stare in assoluto silenzio. Il vicepreside finge di essere il terrorista e cerca di forzare la porta dell’aula. Loro non devono fiatare che se li scoprono vengono fucilati. Emma me lo racconta sempre, quando lo fanno. Sofia, invece no: ormai è quasi abituata a queste cose.


Cagliari, dicevo, mi sembra duemila anni luce da Cambridge, e mi piange il cuore che lo siano anche i miei ragazzi. Li abbraccio da qui, con la speranza che questa situazione possa un giorno finire davvero.



Commenti

  1. Una situazione davvero abominevole descritta con la consueta sensibilità e tenerezza...non ci conosciamo Marina ma ti apprezzo molto (non solo perché sei la figlia di un giornalista che mi ha fatto amare il giornalismo)...un saluto carico di serenità. Gianluca Fenucci

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