I miei 15anni passati con Oscar
Era il quattrodici febbraio del 2002. Brooklyn
puzzava ancora di morte e si viveva con il terrore costante di altri attentati.
Dan aveva da poco perso il lavoro. Io invece avevo iniziato l’università, che
frequentavo la sera o durante il fine settimana perché durante il giorno stavo
dietro a Luca e a Sofia, che avevano 5 e 2 anni.
Dopo colazione faccio a Dan: “Andiamo
a fare un giro al negozio di animale sulla avenue M? Puppy City…”. Era da quando avevo 12 anni che desideravo un
cane, e pensai che invece di implorare Dan senza pudore, forse avrei avuto
più fortuna se davanti a lui ci fossero dei cuccioli di cane. Dan, distrattamente,
rispose, perché no? Portammo Sofia al nido e salimmo in macchina.
Il negozio, all’angolo con Ocean Avenue, era
stretto e lungo, e attorno alle pareti c’erano centinaia di gabbie piccole con
dentro cuccioli di tutte le razze, che piangevano. Entrammo e il commesso, che
abbiamo scoperto chiamarsi Oscar, sembrava contento di avere finalmente dei
clienti. “Siamo qui solo per vedere”, dissi io mentendo anche a lui. Ci portò
davanti a una delle gabbie, la aprì e dentro c’erano due cuccioli di golden retriever
di tre mesi. Ne prese uno e me lo mise in braccio. Tremava, il cucciolo, aveva
paura, e mi guardava con due occhi così. L’altro invece era rimasto nella
gabbia, e mi guardava anche lui spaesato e terrorizzato. “Questo è in saldo
perché sta già diventando grandino. Facciamo 500 dollari e ve lo portate a casa”.
Dan guarda me e dice a Oscar: “No thank you”. Io gli rispondo che lui può anche andare,
che io rimango qui con questo cucciolo. Dan mi conosce, e quando mi impunto
sono peggio di un bardotto. Insomma, dopo sette minuti eravamo in macchina, io
con il cucciolo sulle gambe e Dan con i fottoni. “Ma come”, diceva con la sua
razionalità che non fa mai una piega, “Siamo senza una lira, senza lavoro,
senza un cazzo e spendiamo 500 dollari per un cane, che ci costerà in cibo,
veterinario e tutto”. “Sì, ma non è bellissimo?”, rispondevo io con il magone.
Era effettivamente di una bellezza devastante,
tanto che quando lo portavamo fuori, venivamo fermati ogni tre secondi dai
passanti che volevano accarezzarlo. Era talmente piccolo che non sapeva neanche
fare i gradini da solo. Sofia quando arrivò a casa dal nido quasi muore di
felicità. Lo abbiamo chiamato Oscar, come quel sant’uomo che ebbe l’idea
geniale di mettermelo fra le braccia.
Oscar è stato per quindici anni il nostro compagno di vita più leale e più dolce che potessimo immaginare. Ha passato tanti anni al Prospect Park di Brooklyn,
esattamente di fronte a casa nostra: tutte le mattine io e lui andavamo a fare una
corsa attorno al parco e Buzz, un nostro vicino schizofrenico ma amante degli
animali, lo veniva a prendere con frisbee tutti i pomeriggi e stavano fuori per
ore a giocare con lui, perché dopo le 17 i cani potevano andare senza
guinzaglio. Buzz era convinto che Oscar potesse calcolare matematicamente dove
il frisbee sarebbe atterrato. “Look!:”, mi disse un giorno. Lanciò il frisbee e
Oscar, da seduto, lo guardò volare e poi atterrare senza muovere nessun muscolo
se non quelli del collo. “Beh, è timido con te”, mi rassicurò.
Poi siamo venuti a vivere a Cambridge, e
qualche mese dopo abbiamo comprato una casetta a Becket, tra i boschi e i
laghi del Massachusetts. Per Oscar è stato il periodo più bello della sua vita: correva come un
pazzo fino al lago e nuotava per ore. Il sorriso dei cani è di una dolcezza
indescrivibile, il suo spezzava il cuore. Poi tornava a casa e si metteva
davanti al falò che Dan accendeva in giardino. Fino a quando ha potuto, ha
sempre dormito nel lettone. Poi ha cominciato a avere un po’ di artrite, e
faceva fatica a salire sul letto, ma dormiva di fianco a me. Poi non è più neanche riuscito a salire in camera nostra, allora la buonanotte gliela davo in sala.
Oscar ha condiviso otto dei suoi anni con
Lola, una boxerina tutto pepe che lo ha tenuto giovane e a cui ha fatto da papà.
Lola guai per Oscar, e viceversa, anche se lui era il padrone di casa e lei
seguiva i suoi ordini: quando diceva basta giocare con un grugnito, la Lola se
ne tornava nella sua cuccia un po’ triste.
Poi la Lola è morta improvvisamente e Oscar ha
cominciato a invecchiare, di tristezza, soprattutto. Lo abbiamo, come sempre,
coccolato e rassicurato. Abbiamo pianto insieme per tante notti, io e Oscar, coricati tutti e
due sul parquet della sala. Lui mi consolava, mettendomi la sua zampa sulla
pancia. Ma era tristissimo anche lui: ogni volta che qualcuno entrava, si
alzava sperando che fosse la Lola, e poi se ne tornava nella sua cuccia, ancora
più triste. Si è lasciato andare, Oscar. Poco dopo ha cominciato a camminare
sempre meno, fino a quando abbiamo dovuto cominciare a prenderlo in braccio per salire e
scendere i tre gradini fuori di casa. Cadeva spesso, le zampe non reggevano.
Aveva anche 15 anni, a dire il vero. Una specie di record per un golden
retriever. Poi due settimane fa ha cominciato a respirare male: pare fosse una paralisi a non so
che muscoli che aiutano a respirare. Ma il suo spirito era ancora del ragazzino
che correva felice dietro il frisbee, gli occhi luccicavano sempre.
L’altro ieri l’ho portato dal veterinario per
una visita di controllo. Come me, anche Oscar era molto ansioso, e in macchina
ha cominciato a ansimare. Ho pensato che quando saremmo arrivati si sarebbe un
po’ calmato, ma invece è andata sempre peggio, tanto che alla fine rantolava e
faticava moltissimo. Il veterinario gli ha dato un calmante endovena, ma non è
servito a nulla. Ad un tratto, Oscar stava morendo davanti ai miei occhi e il dottore mi ha detto che
stava soffrendo troppo e che avremmo dovuto dargli una fine dignitosa.
Come una fine dignitosa? È il mio compagno, il
mio migliore amico. Ho chiamato Dan ma non riuscivo a parlare tanto
singhiozzavo, quindi il medico mi ha preso il telefono e gli ha parlato lui. Me lo ha ripassato e Dan mi ha
detto, è arrivato il momento. Per cui gli hanno fatto una puntura e poi un’altra
e il suo cuore ha smesso di battere. Io credevo di morire dal dolore. Ero
coricata su di lui e continuavo a sussurrargli I am sorry, Oscar. I am so so
sorry.
Ad un tratto sembrava che dormisse.
Come si fa
a spiegare l’istantanea presenza di un vuoto enorme dentro l’aorta? Il senso di
solitudine, il senso di colpa per averlo portato dal dottore, il senso di
disagio per parlare a un cane morto? Sono momenti così intensi, così pieni di
tante cose. Dopo poco è arrivato anche Dan e abbiamo ringraziato Oscar per
averci dato così tanto, per essere stato un cane eccezionale per Luca, per
Sofia e per Emma. Ce lo siamo baciati per l’ultima volta. E poi lo abbiamo
lasciato lì, su quel tavolo, su quella coperta azzurrina. Sono uscita con il
guinzaglio e il collare e senza il mio amico Oscar, e sono tornata a casa, da
sola.
Ogni volta che qualcuno apre la porta, mi alzo
sperando che sia lui. Poi me ne torno sul divano, ancora più triste.
pensa a quanto siete stati fortunati tu , i tuoi cari e oscar ad esservi fatti compagnia per così tanti anni , sii felice di averlo avuto accanto.
RispondiEliminaChiedo scusa , non avevo lasciato il mio nome sotto il commento.
RispondiEliminaFranca
Ci sono passata più volte anch'io e so che ogni volta se ne va un pezzo importante di vita. E' un dolore atroce e , quando qualcuno che ti vede piangere disperatamente ti dice " dai, su, era solo un cane!" ti viene la voglia di strangolarlo.
RispondiEliminaNoi amanti di questi esseri meravigliosi abbiamo qualcosa in comune : siamo dei masochisti.
Un abbraccio.
Cristiana
Un abbraccio <3
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