Fobia vattene via
Questa è una storia un po’ lunga, ma a lieto
fine.
Negli ultimi mesi, ragionandoci molto, mi
sembra di aver capito da dove viene la mia fobia.
Tanti hanno delle fobie per
cose che sembrano insignificanti, ma che per loro sono orrende perché li riportano a un momento traumatico della vita. Emma, per esempio, ha la fobia di
vomitare, e quando dopo l’ennesimo attacco di panico le avevo chiesto perché secondo lei aveva così paura, mi ricordò di quella
volta anni fa quando tutti e cinque, noi genitori e i tre ragazzi, avevamo
preso lo stesso virus intestinale e facevamo a turno a vomitare. Mi disse di
aver avuto il terrore che non ci fosse qualcuno pronto ad aiutarla. Per noi che non abbiamo questa fobia, sembra quasi una cosa assurda.
Ma non serve a niente ricordarle che vomitare è una cosa normale, che capita e
anzi spesso fa sentire meglio. Non serve a nulla perché non è il vomito in sé,
ma è l’associazione. L’unica cosa che posso dirle è che la capisco perché anche
io ho delle fobie per cose che agli altri sembrano tanto semplici e naturali, e
che insieme magari un giorno riusciremo a superare anche queste.
La mia fobia più debilitante è quella di andare
dal dottore. Non l’ho sempre avuta, mi è arrivata quando ho compiuto quarant’anni.
Mi avevano trovato la pressione e il colesterolo alti, eredità dei Viola.
Una delle cose che avevo sentito dire per più
di trent’anni era che mio padre, che aveva la pressione e il colesterolo alti,
non si è mai curato: “Ma te lo vedi papà a prendere la pastiglietta tutte le
mattine? Se pensi che era stato ricoverato per la pressione alta ed era scappato dall’ospedale…”. Si diceva anche che la causa della sua morte fosse
proprio la pressione, talmente alta che aveva fatto scoppiare una
vena nella sua testa.
Il trauma della morte di un genitore,
soprattutto quando si è ragazzini, è come un virus che non va mai via. A volte
sembra essere scomparso: la vita va avanti serenamente e si impara che quello
che è stato è stato. Poi si fa vivo nei momenti più inaspettati: vai dal
dottore e ti misurano la pressione e ti dicono: “Altina…nella tua famiglia ci
sono persone ipertese?”. La risposta è sempre la stessa: sì, mio padre. Morto a
43 anni. Ictus cerebrale. Ma faceva anche una vita balorda, in un mondo
balordo. Io mica sono come lui, cerco sempre di dire. Eppure per spiegare la
mia pressione alta devo spiegare anche la sua, e quindi spiegare la sua morte.
Morte che vuol dire abbandono degli affetti,
dei progetti, di tutto.
Morte che vuol dire sottoterra, con i fiori
sulla tomba.
Morte che vuol dire mai più.
Ma soprattutto morte che vuol dire lasciare i
figli a dover gestire un trauma e un dolore atroce per il resto della loro
vita. Vuol dire che cresceranno con un solo genitore, anche lui pieno di
dolore.
Insomma, morte vuol dire tragedia.
Da anni una settimana prima della visita comincio ad avere
incubi e a non dormire di notte per paura. Arrivo al giorno
fatidico distrutta, prendo uno Xanax prima di andare e siccome arrivo sempre
agitata, la pressione sale sale, sale, per cui la dottoressa dice che devo
rimanere in ambulatorio per un po’ e poi me la rimisura, cosa che mi fa
alzare la pressione a livelli pericolosi. Per cui poi per tre mesi mi telefona per dirmi che devo passare in ambulatorio per misurarla, e ogni volta che mi
chiama mi va il cuore in gola e la pressione a mille.
Lunedì scorso avevo l'avevo chiamata per farmi fare una ricetta e lei mi rispose: “Non te la faccio fino a ché non
vieni. Ci vediamo mercoledì alle 10:50”. “Perfetto!”, le dico tremando. Dovevo
solo affrontare due giorni di paura invece che sette o otto, come di solito. Il
martedì dovevo andare a fare l’esame del sangue, e avremmo insieme discusso i
risultati il giorno dopo.
L‘esame del
sangue è durato quattordici secondi. E per la prima volta non avevo il cuore
che batteva a palla. Sono uscita dall’ambulatorio e ho deciso di andare in
farmacia a misurarmi la pressione (ci vado tutte le settimane, ed è sempre
normale) così che il giorno dopo avrei potuto dire alla dottoressa che la mia
pressione è alta perché ho paura.
Questa idea mi ha subito calmato molto. Mi
sono detta: “Stai a vedere che questa volta ce la faccio”. Ho passato il resto
del martedì a fare altro: ho lavorato, ho portato il cane al parco per ben due
volte, ma avevo sempre in mente le 10:50 del giorno dopo.
Mercoledì mattina mi sono svegliata verso le
sette. Ho fatto colazione, salutato i ragazzi e ho portato Fiona al parco, dove
sono stata per un’oretta a chiacchierare con i miei nuovi amici. Sono tornata,
ho fatto la doccia e ho pensato che io lo Xanax questa volta non lo prendo. Mi
sembrava di fare un’atto rivoluzionaria, e la cosa mi faceva sentire forte. Sono
arrivata e era subito il mio turno. L’infermiera mi ha portato nell’ufficio
medico e mi ha misurato la pressione: alta ma non altissima. “Ho paura”, le ho
detto. “Non ti preoccupare, tutto a posto”.
È uscita e ho dovuto aspettare una decina di
minuti prima che arrivasse la dottoressa, che ha bussato, mi ha dato la mano e si
è messa a chiacchierare del più e del meno. Dopo una decina di minuti mi misura
la pressione.
Normale.
Sono uscita di lì che mi sentivo come Sara
Simeoni alle Olimpiadi di Mosca nel 1980. Mi sono sentita di aver abbattuto,
per questa volta, un muro che costruivo segretamente da anni. La sera a tavola ho raccontato a Emma del mio
successo e le ho detto che se ce l’ho fatta io, sono certa che anche lei, un
giorno, riuscirà a vincere la sua paura. “I don’t think so”, mi ha risposto. Ma
poi mi ha sorriso.
Io e lei ci capiamo perfettamente.
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