Ma che ve lo dico a fare
Basta per diversi motivi. Il primo è che di
pomeriggio lavoro. A casa, sì, ma nel mio studiolo, di sopra. Guadagno poco, ma
scrivo tantissimo. E comunque se fossi nel mio studiolo a guardarmi Un Posto Al
Sole sono fatti miei.
La seconda è che il mio ruolo è di mamma e non
di terapista.
La terza, forse la più importante, è che Luca
deve imparare a essere più autonomo possibile, e che quindi meno sta con me
meglio è, considerato il fatto che io sono il suo più enorme oggetto di
ossessione.
La supervisora mi aveva detto che la loro
missione era insegnare ai genitori come stare con i loro figlio autistici, e
quindi che no, dovevo essere coinvolta, a cui risposi che io, modestamente,
sono la maggior esperta di mio figlio sulla faccia della Terra. Allora, disse
apparentemente scocciata, rimaniamo così: contatto Fergie del distretto
scolastico, che paga sia la scuola che la terapia a casa per dirle che siccome
io non sono più disposta a essere coinvolta nella terapia a casa, alcuni
obiettivi dell’ IEP dovevano essere modificati. L’EIP è un documento annuale redatto
da me, dalla scuola, dalla componente terapeutica di casa e dal distretto
scolastico in cui vengono elencati gli obiettivi su cui Luca deve lavorare e le
metodologie per raggiungerli, e ogni volta che viene modificato, devono essere
tutti presenti e d’accordo.
Mi è sembrata una risposta esagerata,
sinceramente, come a dire: vediamo cosa dice Fergie, la capa, ma ho accettato
la sfida. Avrei spiegato apertamente e possibilmente senza arrabbiarmi le mie
ragioni e sicuramente saremmo arrivati a un compromesso buono per tutti.
Stamattima mi sono svegliata che erano le
sette emmezza. Con la calma con cui accolgo ogni mattina, mi sono fatta il
caffè, la spremuta d’arancia e mi sono seduta a tavola con Emma e Dan per due
chiacchiere prima che andassero a scuola e al lavoro. Luca era già uscito.
Quando se ne sono andati, ho acceso una sigaretta, Sofia mi ha chiamato e siamo
rimaste al telefono una ventina di minuti, poi ho preso il cane e il guinzaglio
e sono andata al parco. Faceva freddo, ma quasi tutti i suoi amici erano lì, e
mi sono messa a chiacchierare per un’oretta fino a quando io e Juan, il mio
nuovo amico, ci siamo incamminati verso casa. Ad un certo punto squilla il
telefono. È Ashley, la supervisora, che mi chiede a che ora pensavo di
arrivare. “Dove?”, dico io un po’ scocciata. “All’incontro per l’IEP. Fergie è
qui da mezz’ora!”. Ah, ho dimenticato di dire due cose: la prima è che non mi
facevo la doccia da venerdì mattina (che schifo) e la seconda è che la scuola
di Luca è a un’ora di distanza da casa.
Senza neanche salutare Juan, ho cominciato a
scusarmi vergognandomi di essermene dimenticata: già avevo creato tutto questo
casino perché, secondo loro, ero meno interessata ad aiutare il povero ragazzo
autistico e indifeso. Poi mi dimentico pure di andare.
Imploro di fare una conference call.
“Veramente, per queste cose…”. Ma insisto, con mille scuse e momenti di
mortificazione fuori dalla norma, e mi dicono va bene. Io avevo ancora il
sacchettino verde pieno di cacca di Fiona, ma sono corsa a casa e mi sono seduta
sul divano ad ascoltare e a parlare. Ha iniziato Ashley, dicendo che siccome io
blah blah, al ché ho interrotto dicendo che è tutto molto bello che scrivo e
faccio libri, ma devo avere il tempo di farlo. Se questo interferisce con il
futuro di mio figlio, lavorerò di notte, ma non credo che…Fergie mi interrompe
e dice che non è quello, ma che pensava comunque che magari si potrebbero
ridurre le ore di terapia a casa. “Tanto Luca impara, ma poi non sa
generalizzare…” dice Ashley. Come tutti gli autistici al mondo, dico io. “Beh,
sì…”. Ho cercato di mantenere la calma. Poi viene fuori che siccome Luca deve
fare la fatidica transizione da scuola a centro diurno, a novembre, forse
sarebbe davvero il caso di ridurre le ore per abituarlo piano piano a non avere
terapia il pomeriggio. “ Mah, io direi invece di continuare il più possibile a
insegnargli delle cose visto che non avrà più terapia il pomeriggio, cosa di cui
non sono neanche sicura, perché mi era stato detto che avrebbe potuto
continuarla…”.
Silenzio.
Riprendo la parola: “Scusate, ma ho un dubbio:
stiamo dicendo che bisogna ridurre le ore perché Luca deve abituarsi tra sette
mesi a una routine nuova, e quindi è per il suo bene o me la state facendo
pagare per avere espresso un’opinione, tra l’altro motivandola in mille modi?
Perché se è per quello, allora faccio una doccia veloce e arrivo subito perché
mi sembra assurdo che…” Mi hanno assicurato che non si tratta di quello, anzi:
ci sono tanti genitori che lavorano fuori casa.
Ecco, appunto.
Ma pensate la coincidenza: oggi ho scoperto
che succede a tutti i ragazzi che l’anno prossimo non avranno più l’appoggio
della scuola che si taglino i servizi. Strano, perché in 21 anni una cosa del
genere non l’avevo mai sentita. Mi puzza di punizione, sinceramente. Non ci
sarebbe mai stato questo incontro e non ci sarebbe mai stato un buon motivo per
discutere la necessità di diminuire le ore di terapia.
Poi ho pensato che in effetti anche io e Luca
non ne possiamo più di terapisti in giro per casa, e ho detto che va bene, che
si limitino le ore, che a Luca poi ci penso io. Che non mi convinceranno mai
che questa non è una bacchettata sulle mie mani per aver parlato, ma che non me
ne frega niente comunque. “Dai, non prendertela…” Ma figuratevi se me la prendo,
dico in un tono ironico che non colgono. A quanto pare, tra l’altro, pare che
siccome è autistico la terapia a casa non stia neanche funzionando! Che passi
parte dei suoi pomeriggi davanti a Youtube a masturbarsi quanto vuole in camera
sua. Quello lo sa fare benissimo, senza bisogno di terapie.
Ma che ve lo dico a fare.
Cara Marina, da madre sola, e compagna di viaggio di una ragazza autistica, capisco molto bene il senso di abbandono da parte della società. Una parola per me, lei, e tanti altri: resistenza. I nostri figli hanno diritti, e li abbiamo anche noi. E aggiungo: evviva Nicoletti. Chiara da Roma
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