Pesce d'aprile (in ritardo)
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La giornata internazionale dell’autismo cade il due
aprile: è una specie di pesce d’aprile in ritardo. Sì, perché, diciamocelo, è
uno scherzo della natura nascere così strambi come mio figlio Luca, che si
porta addosso il suo autismo come Marilyn Monroe portava le due gocce di Chanel
numero 5: con la disinvoltura di uno che non poteva essere che così.
Ricordo che tanti anni fa, quando avevo forse vent’anni,
mia sorella Anna lavorava in una comunità di Milano per persone disabili, e un
giorno ci eravamo incontrate a bere un caffè in un bar. Lei aveva portato con sé
una ragazza, forse della mia età, che era autistica. Come Luca, non parlava e
non guardava le persone negli occhi, e io cominciai a chiedere a Anna
informazioni sulla sua condizione. Anna mi bloccò immediatamente: “Non parlare
davanti a lei di queste cose. Non sembra, ma capisce tutto!”. Rimasi colpita
dalla sensibilità di mia sorella, e questa cosa del non fare domande su una
persona quando è presente l’ho imparata quel giorno lì. Capita spesso, ancora,
che in presenza di Luca alcune persone mi chiedano di lui come se lui non ci
fosse, e mi infastidisco subito.
Mai e poi mai avrei immaginato che un giorno anch’io
avrei avuto a che fare con questa cosa strana che si chiama autismo, e invece
ci sono dentro fino al collo da ventidue anni.
L’autismo ha contribuito a cambiarmi, a farmi
crescere, a far parte di un mondo che mi era assolutamente estraneo. Quando in
una famiglia c’è una persona autistica, tutta la famiglia ne è affetta, in
qualche modo. L’autismo non è contagioso, ma in casa sì. Le mie figlie, Sofia e
Emma, sarebbero molto diverse se avessero un fratello maggiore, come dire,
normale. Non dovrei, lo so, ma spesso penso a come sarebbe la nostra famiglia
se Luca fosse diverso. Mi chiedo se Sofia, che adesso è al college, lo
chiamerebbe per avere consigli, o se lui sarebbe protettivo nei suoi confronti.
Mi chiedo se Emma, che va in prima media, si farebbe portare in macchina dalle
sue amiche da suo fratello Luca, se lui sarebbe un fratello affettuoso. Ricordo
che Sofia quando era piccola (lei e Luca hanno tre anni di differenza) proprio
non riusciva a capire perché suo fratello non volesse giocare con lei. “Mi
piacerebbe sapere almeno qual è il suo colore preferito…”, mi diceva, che
voleva dire che le sarebbe piaciuto poterlo conoscere.
Luca invece ha sempre fatto quello che i suoi colleghi
autistici fanno da millenni: si è fatto gli affari suoi, non ha mai mostrato nessun
interesse per le sorelle, se non quando ha bisogno che loro lo aiutino con il
suo iPad. In compenso, sono estremamente protettive nei suoi confronti: sanno
bene che se quando siamo fuori, lo perdono di vista, lui può finire male: sotto
una macchina, o perso per la città senza possibilità di chiedere aiuto. Questo
senso di protezione lo hanno anche per i loro amici: sono le prime a dare una mano,
le prime a consolare o a portare un regalino a scuola per un’amica che il
giorno prima ha avuto una brutta giornata.
Per me e Dan è molto diverso: il fatto di avere un
figlio autistico ha fatto in modo che la nostra vita sociale, ma anche di
coppia, sia in qualche modo amputata, limitata per sempre da una persona che
non è in grado di badare a sé. Non è sempre facile: a volte, quando sono di
ottimo umore, mi dico che il gioco vale la candela. Altre, come oggi, mi girano
invece i coglioni a pensare che dopo tutti questi anni a fare la mamma, e cioè
a sacrificare la mia seppur limitata libertà, sono ancora qui a dover chiamare
una babysitter se voglio andare al cinema. E poi chi glielo spiega alla babysitter
che il “baby” è un omone di 22 anni che si presenta in cucina nudo a chiedere l’ennesimo
bicchiere di latte? Certo che è più facile stare a casa che andare al cinema;
aspettare che il film arrivi su Netflix e via andare.
La mia conclusione di oggi (poi magari domani la penso
diversamente) è che l’autismo mi avrà anche fatto scoprire un mondo diverso,
affascinante, ma che spesso è una rottura di palle mai vista.
Con tutto il
rispetto, ovviamente.
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