L'Aristide

 



L’altra sera, Luca è andato a letto presto. Siamo ormai nel nostro appartamentino di Milano da tre settimane, e stiamo cominciando a crearci una routine: la mattina, dopo la colazione e la doccia, andiamo da mia mamma, che vive a circa cento metri da noi. A Luca piace molto andare da lei per due motivi: l’ascensore, che arriva fino alla sala, e mia mamma, di cui lui è ossessionato. Chiacchieriamo e poi mangiamo insieme. Dopo pranzo, torniamo a casa, dove io cerco disperatamente di lavorare, anche se  Luca mi interrompe ogni tre secondi. Verso le quattro arrivano mia mamma, mia zia Milena e mio cugino Paolo. Chiacchieriamo per un’oretta. A volte lascio Luca con loro e corro a fare la spesa. Poi, verso le sei emmezza, mia mamma va a casa e io e Luca rimaniamo da soli. Preparo la cena verso le sette (Luca ha sempre fame e comincia a chiedere cibo alle cinque), faccio la cucina e mi metto davanti al televisore. Mi ero ripromessa, prima di venire a Milano, di non cadere nella trappola di Un Posto Al Sole, che le mie sorelle, mia zia e mia mamma guardano religiosamente ogni sera, per poi telefonarsi e commentare. Invece, ormai ci sono cascata, per cui dopo il tg, dopo Blog, dopo quella cagata delle mamme e dei figli (durante la quale faccio la cucina), mi sparo i drammi di Casa Paladini. 

Luca, nel frattempo, se ne sta in camera sua a guardare i suoi video su Youtube. La sera è il momento di tranquillità, sia per me che per lui.


Qualche sera fa, mentre ero finalmente spaparanzata sul divano, che la sera si trasforma in un letto come se fosse la zucca di Cenerentola, alzo gli occhi sul soffitto e vedo un geco. Occristo, mi dico. Il geco proprio non ci sta dentro in questo momento, il mio, quando finalmente mi rilasso con un bicchiere (o due) di vino. Sento che tutti i miei muscoli si irrigidiscono, segno inconfutabile di panico. E adesso? Penso subito di chiamare mio zio Bruno, che abita a cento metri e che quando ero piccola l’avevo soprannominato l’ambulanza, per via che appena lo chiami, lui arriva. Ma erano ormai le dieci passate e non volevo disturbarlo. In fondo era piccolo, questo geco, forse tre centimetri di lunghezza. Ma comunque no, non mi sono convinta: a me il geco in casa crea ansia e terrore.


Non so da come, ma si capiva che non avrebbe voluto essere qui. Questa cosa ci univa: neanch’io avrei voluto che ci fosse. Eppure, tutti e due ce ne siamo fatti una ragione. La prima cosa che ho pensato, dopo aver scartato l’idea di chiamare zio Bruno, è stata: certo che Milano è cambiata molto da quando ci vivevo; non ricordo di aver mai visto un geco in via Lomellina. Sarebbe come vedere una giraffa in via Negroli, o una zebra in viale Argonne. Impossibile. Ne avevo visti due o tre in vita mia, durante una vacanza a Vieques, un’isola caraibica che a dirla così sembra da fighetti ma che invece è molto spartana. 


Osservando il geco, immobile sulla parete, mi tornavano alla mente ricordi orrendi di quando, all’asilo, i maschi catturavano le lucertole e me le mettevano nella schiena, dentro la maglietta. Lo so, i gechi non sono lucertole, ma ci assomigliano troppo per potermi sentire a mio agio. 


Coricata sul divano, seguivo attentamente i movimenti del geco sui muri. All’inizio era sulla parete a sinistra, sopra il tavolo rotondo. Non era sul soffitto, ma sulla parete. Poi, a passi veloci ma indecisi, è arrivato allo stipite della porta che divide la sala dal piccolo corridoio. È rimasto lì un po’, come se stesse decidendo la mossa che avrebbe avuto più senso fare. È salito fino alla linea tra la parete e il soffitto, ha camminato sulla parete sopra gli armadietti della cucina ed è arrivato tutto a destra, sopra il mobile bianco della televisione. Troppo vicino a me per sentirmi tranquilla.


Mi sono alzata lentamente per non spaventarlo, sono andata a lavarmi i denti e mi sono infilata sotto le coperte di fianco a Luca, che dormiva profondamente e respirava a un ritmo talmente regolare che mi ha cullato fino al sonno.


La sera dopo, si è ripresentato. Ma questa volta avevo meno paura. Ho pensato che forse dandogli un nome avrei potuto vederlo più come un amico che un incubo. Ho deciso che si chiama Aristide, un nome molto milanese e impegnativo, in netto contrasto con il suo corpo, piccolo e in qualche modo, dolce. L’Aristide sembrava avere una meta precisa: arrivare vicino alla finestra, che sperava fosse aperta. Ma cammina lentamente, a tratti, e ad un certo punto, forse per la sua infinita indecisione, mi sono stancata di seguirlo. Gli ho dato la buonanotte e mi sono intrufolata ancora sotto le coperte del lettone, con Luca. 


Stasera, mentre cucinavo, pensavo che dopo cena, dopo Un Posto Al Sole, dopo la mia sigaretta fumata appena fuori casa, si sarebbe presentato l’Aristide. Volevo raccontargli della nostra giornata, dei miglioramenti che Luca sta facendo in questi giorni, del fatto che sono riuscita a lavorare, a scrivere. Di come io e Luca, malgrado la distanza dalla nostra vita quotidiana, siamo riusciti in poco tempo a crearci una routine bella, piena di affetti e di gioie.


Invece, stasera l’Aristide non è venuto. Continuo a guardare le pareti e il soffitto, ma niente: lui non c’è. Da un lato sono contenta: forse, quando ho lasciato la finestra aperta stamattina, è riuscito a uscire e a tornare nel suo mondo di gechi, con i suoi genitori e i suoi fratelli. Ma ho sentito una punta, solo una punta, di tristezza. Una specie di solitudine. Io e l’Aristide non saremmo mai stati amici: lui aveva paura di me e io avevo paura di lui. Ma sotto sotto, nel silenzio delle notti milanesi, avremmo avuto molte cose da raccontarci.


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