Si parte!

 
















Finalmente era arrivato quel fatidico venerdì della partenza che da mesi aspettavo con un misto di entusiasmo e terrore.


Ci siamo messi in macchina verso le undici emmezza, dopo aver strapazzato di baci Emma, che avrei lasciato a Cambridge per due mesi, e coccolato Fiona e Rosie, i miei due cani che amo follemente. Emma sembrava molto più triste di lasciare il suo fratellone che me, perché i due si amano follemente e io invece sono il genitore più severo. Dopo i saluti strazianti io, Dan, Luca, tre valigie e due zainetti siamo saliti in macchina. 

Destinazione: aeroporto JFK, New York City. 

Durata del viaggio: tre ore e venti (senza traffico).


Era appena arrivata a notizia che Trump si era beccato il Covid, per cui per la prima parte del tragitto io e Dan abbiamo ascoltato la radio, commentando e immaginando le diverse situazioni che avrebbero potuto avverarsi se Trump fosse finito in sala rianimazione o se non ce l’avesse fatta. Dopo tutto, le elezioni americane sono a un mese di distanza e in tutti gli Stati Uniti non si parla che del Covid e di come voteranno gli americani. Insomma, ci siamo buttati sulla politica pur di non parlare della solitudine che entrambi avremmo provato nei due mesi a venire. Io e Dan, sposati da quasi trent’anni, siamo ancora romantici come i ragazzini del liceo che scrivono sulla Smemoranda “Ti amerò per sempre”. Non abbiamo mai passato due mesi lontani da quando ci siamo sposati. Quindi, meglio parlare di Trump, del Covid e delle elezioni che di malinconia. 


A metà viaggio, abbiamo deciso di fermarci per mangiare qualcosa. Luca aveva fatto capire di volere McDonalds - fries!fries - mentre io volevo andare da Dunkin Donuts, dove ti danno bagel tostato con il Philadelphia per due dollari e trenta. Mentre loro si prendevano gli hamburger e le patarine, io, munita di mascherina sul viso e portafogli in mano, sono entrata nel piccolo autogrill e ho ordinato il mio pranzo. Sono poi salita in macchina, e, mangiando, abbiamo continuato il viaggio, un po’ in silenzio e un po’ no. Avevo detto a Dan che questa mia partenza per un periodo lungo mi ricordava quando di eravamo morosi, e io venivo a trovarlo per una decina di giorni. Al termine delle due settimane, lui mi accompagnava all’aeroporto e io sentivo dentro di me il dolore che avrei provato a stare lontano da lui per mesi. Era una disperazione così forte che una volta scappai dall’aeroporto per raggiungerlo al parcheggio e dirgli: “Io voglio stare con te tutta la mia vita”. Lui mi riportò invece al gate e aspettò che l’aereo decollasse prima di lasciare l’aeroporto. Ricordo ancora lo strazio di quel momento e se mi concentro, questo venerdì di partenza sento ancora quel dolore antico e profondo. Giulietta e Romeo, confronto a noi, erano dei principianti.


Siamo arrivati all’aeroporto esattamente due ore prima della partenza, prevista per le 17:30. La fila al check in era lunghissima, per cui ho usato senza vergogna la carta autismo, che funziona quasi sempre. Mi ha aperto mille porte in passato, e anche questa volta non mi ha delusa “Mio figlio è autistico e non riesce a stare in fila”, dico alla signora vestita con un tailleur bordeaux. Siamo immediatamente al check in, faccio lo spelling del mio nome e di quello di Luca al signore dietro il plexiglass anti Covid con la giacca bordeaux come la sua collega. Gli passo da sotto il vetro il mio passaporto italiano e quello di Luca, americano. Il signore dietro il plexiglass guarda attentamente i passaporti e il monitor del computer davanti a lui e poi dice: “Ma il suo nome è Luca Mario Canale-Parola, come è scritto sul biglietto, o Luca Piero Canale-Parola, come è scritto sul passaporto?”. È stato in quel preciso istante cheho saputo di aver sbagliato il secondo nome di Luca quando avevo prenotato i biglietti. Che cretina. Il signore dice” This is a big problem”, perché i nomi non combaciano e quindi la persona del biglietto non è la stessa del passaporto. Sento il collo sudare, le mani anche e gli chiedo se non c’è proprio niente da fare. Riprovo a usare la carta autismo, ma questa volta non serve. Il fatto è che io, la madre, ho scritto il nome sbagliato di mio figlio.  Il signore dietro il plexiglas fa la faccia cupa e chiede alla collega cosa fare. I due parlano per un po’ e poi, non so come, riescono a darci la carta d’imbarco.


Dopo il primo flop, io, Dan e Luca ci rechiamo al chiosco delle sedie a rotelle. Ne avevo prenotata per farmi aiutare, visto che ero da sola con Luca e soprattutto per usare senza nessuna vergogna la carta autismo per l’ennesima volta: avremmo evitato le file della security, e del controllo dei passaporti, perché qualcuno ci avrebbe accompagnato fino al gate senza fare storie. 


Parlo con la signora del chiosco e le spiego la situazione. Con una faccia da stronza, mi dice che ci sarà da aspettare. “Ok”, le dico, e io e Luca ci sediamo. Dopo poco arriva un ragazzotto che annuncia che ci avrebbe accompagnato lui. A questo punto Dan, prima di tornare in macchina e farsi tre ore emmezza per tornare a Cambridge, mi fa: “Ricordati di dargli la mancia!”. “È vero”, dico io, “aspetta che prendo cinque dollari dal portafogli”. Apro la borsa e il portafogli non c’è. Cazzo! L’ho dimenticato in macchina, quando sono andata a prendere il bagel. Dico al ragazzotto di aspettare un attimo, e Dan corre in macchina a prendere il maledetto portafogli. Nel frattempo, arriva un’altra persona che aveva richiesto la sedia rotelle, e il ragazzotto se ne va con questo. Dan, l’eroe dei due mondi, arriva dopo cinque minuti, senza fiato, e mi dice: “Per fortuna ce ne siamo accorti! Altrimenti partivi senza bancomat, senza soldi, senza niente. Speriamo che questa sia l’ultima cagata che hai fatto, altrimenti non so se arrivi a Milano tutta d’un pezzo!”. Ha ragione, ne avevo cannate due su due, dopo tutti questi mesi di preparazione, di ansie e preoccupazioni. Ero mortificata. Non ci saremmo visti per due mesi e ci stavamo salutando così, lui tutto sudato e senza fiato e io agitata e rincoglionita. 


Luca, invece, sembrava completamente a suo agio, malgrado la situazione decisamente anomala in cui si trovava, si è seduto sulla sedia a rotelle rossa e sia io che lui siamo stati accompagnati da un’altra persona, questa volta un signore di mezz’età, silenzioso e con il passo veloce, tanto che facevo fatica a stargli dietro. Salutare Dan così di fretta, con un bacio sulle mascherine, è stato orrendo. “Please take good care of Shmoo”, ha detto prima di avviarsi con passo deciso verso il parcheggio. 


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