Stai calma un cazzo







"Stai calma", mi dice Dan. Oh, non l'ha ancora capita: quando una persona è frustrata, ma tenta disperatamente di trattenersi per non spaccare tutto e parla in modo un po' concitato, l'ultima cosa da dire è stai calma. Perché io prendo tutti i piatti della cucina e li spacco, va bene? Tiro calci alla lavatrice, occhei? Ti cambio i connotati, vuoi vedere?

Calma un cazzo.

Sono nove mesi, nove lunghissimi mesi che noi (leggi: io) ci occupiamo di Luca ventiquattro ore al giorno. Io e lui siamo anche andati a Milano per un mese, nella speranza di tornare e sperare che Luca potesse essere impegnato almeno per parte della giornata e io potessi lavorare, oppure, perché no?, cazzeggiare. Prima della nostra partenza, avevo ricevuto un'email da Sarah, la direttrice del centro di Luca, che mi annunciava che i servizi sarebbero ricominciati e chiedeva quando Luca avrebbe potuto riprendere. Le ho risposto che io e lui saremmo stati via per un po' e che l'avrei ricontattata al mio arrivo, grazie arrivederci.

Siamo tornati a casa un mese dopo. Alla partenza avevamo lasciato alle spalle Milano nella morsa del Covid. Qui abbiamo trovato qui la stessa atmosfera di quando eravamo partiti: Dan senza lavoro; Emma con la scuola a distanza che non serve a niente e con il pigiama, lo stesso, da giorni; Sofia che aveva litigato con i suoi compagni di casa e si era trasferita nel mio studio. Il mio studio, questa è una parentesi, è da sempre la mia isola deserta, come se fosse uno Xanax gigante che mi accoglie nel calduccio delle sue braccia. Chiusa parentesi.

In poche parole, io e Luca torniamo da una situazione difficile a Milano e veniamo catapultati nella stessa merda che avevo lasciato un mese prima.

Poi le cose, a poco a poco, si sono un po' aggiustate: Dan ha trovato lavoro (alé!). Per ora farà lo smartworking per cui abbiamo preparato una stanzetta solo per lui, con tanto di scrivania nuova, sedia nuova, televisione (?!?), tre monitor per il computer e una poltroncina. Sofia ha trovato un appartamento carissimo e piccolissimo nel centro di Boston da condividere con un'amica, per cui presto il mio studio sarebbe ritornato a essere il mio paradiso. Emma, dopo molte insistenze, ha cominciato a togliersi il pigiama e mettersi i pantaloni. Mancava solo di chiamare Sarah per dirle che eravamo arrivati per sistemare anche Luca e riprendere una vita quasi normale. La domanda a Sarah era la seguente: Luca è pronto a tornare! Se lo scuolabus non c'è, no problem, lo porto io. Quindi, quando può tornare? Domani, dopo domani? Non avevo alcun dubbio: mi avrebbe detto di sì. Dopo tutto per legge Luca deve ricevere un tot di ore di servizi.

Le ho scritto un'email alle otto e mezza del mattino.
Le ho riscritto alle dieci e ventitré.
Le ho lasciato un messaggio in segreteria alle dodici e cinquantaquattro.
Ho chiesto a Dan di lasciarne uno lui. Erano le tredici e venticinque.
Ho rimandato sia un'email che un messaggio in segreteria verso le tre e mezza.

Durante tutta la lunghissima giornata non facevo che controllare l'email, nella speranza di vedere una sua risposta. Ma niente. L'ultima volta che ero stata così agitata nell'aspettare una risposta era per il risultato dell'amniocentesi per Sofia: due giorni infiniti, orrendi.

Intanto, niente Sarah.

Dalle cinque e venti in poi, chiunque si fosse osato di rivolgermi la parola si sarebbe beccato un vaffa veloce come un treno. A parte Luca, ovviamente, che mi sta addosso, fisicamente addosso, da ormai nove mesi. Nove mesi in cui ho avuto pochissimo tempo per lavorare e nessun momento per me, anche senza lavorare: a bere un caffè senza interruzione; una sigaretta, la pipì. Dai, mi dicevo, ancora qualche giorno e poi basta. 
Ma niente.

Alle sei e trentacinque di sera squilla il telefono. È il centro. Rispondo immediatamente scusandomi per averle fatto lo stalking. Lei ride, e si scusa per non avermi chiamato prima. Se penso che una delle cose principali che il centro insegna è la comunicazione, non mi sembra il miglior esempio. Ma transit.

Ero felice perché finalmente sarebbe arrivato un supporto, sia per Luca, che ormai non ne può più, visto che riceve servizi da quando aveva quattro mesi, e invece adesso non fa niente, sia per me, che ho seimila progetti di lavoro in mente e non un momento di pace. "Mi spiace, Marina, ma il numero dei positivi al Covid sta aumentando, per cui abbiamo deciso di non accettare nessun nuovo utente". 

Così, come se niente fosse, quella stronza della Sarah mi spara una pallottola direttamente nel cuore. 

Io, ormai sconfitta fino al midollo, mi siedo sul divano e comincio a singhiozzare. "Ma sono nove mesi che noi…io non ce la faccio…e Luca…". Sarah dice che le spiace ma per adesso è così. La supplico, ormai senza nessun orgoglio, di darmi un'alternativa, l'indirizzo di un posto che offra supporto ai genitori, ai loro figli disabili, tra l'altro sentendomi pure in colpa. Se c'è il Covid, cos'è, mandi Luca in giro così se lo becca, solo perché stanca? Ma sarai una mamma stronza o cosa?  Ma continuo: "Come si può pensare che una persona riesca a lavorare con un figlio gravemente disabile in casa tutto il giorno?" Cristo d'un Dio, ma se io dovessi lavorare per mantenere la famiglia, come faremmo? Davvero non saprei, risponde Sarah, che si capisce lontano un miglio che vuole mettere giù. 

Niente. Non c'è nessun supporto. Per nessuno di noi. 
Hai un figlio gravemente disabile? Cazzi tuoi. 
Hai settantacinque anni e non riesci più ad occupartene? La prossima volta impari. 
Tuo figlio spacca tutto perché è disperato? Dagli una botta in testa. 
Perché qui non c'è ciccia per gatti. E smettetela di chiedercelo.

"Stai calma", mi dice Dan. "Qualcosa faremo".



(foto rubata da Google)





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