Ripresentarsi mercoledì




Le mie partenze sono sempre organizzate molto prima. Bisogna capire se Dan, San Dan, riesce a occuparsi di cani, gatto, Luca, Emma, pattumiera, bucato, spesa, cucina oltre alle sue belle quaranta ore di lavoro settimanale. Per cui cerco di fare il più possibile prima di partire: tutti i bucati, i cambi dei letti, preparo qualcosa da mangiare, robe così. 


Qualche giorno prima della partenza mi viene sempre un’ansia pazzesca: mi sento egoista, a fare i capricci per tornare a Milano e lasciare Dan con così tanto da fare. Ne parlo con lui, che mi rassicura, sempre: l’ho fatto tante altre volte. Vai e non preoccuparti che qui è tutto a posto. Uno così non lo si trova neanche su Marte, altro che balle.


Il giorno prima della partenza, Dan mi porta fuori a cena. Domenica siamo andati in un ristorante appena aperto qui a Cambridge, dove prima c’era la gelateria. Molto buono e molto caro. “Dai, che poi non ci vediamo per due settimane”, mi dice versandomi un bicchiere di rosso da dodici dollari a calice.


La mattina della partenza ritorna l’ansia pazzesca, ma a questa si aggiunge l’agitazione di rivedere tutti a Milano. Faccio avanti indietro per casa; metto qualcosa in valigia, poi la tolgo, poi ne rimetto un’altra e mi dico che no, a Milano ne ho già due, non mi serve. Saluto con passione travolgente Luca, che esce presto per andare al centro. Questa volta mi dispiace dirgli che vado a Milano, ma senza di lui. Milano è il suo paradiso terrestre, più che altro perché c’è mia mamma. L’ultima volta siamo andati insieme e per quanto sia stato per me uno sbatti che neanche Giuseppe e Maria quando sono andati a Betlemme, per lui è stato il periodo più bello della sua vita. “I am taking an airplane”, gli dico. “Ok”, fa lui. “Airplane”.


Poi saluto Emma che, da brava adolescente, non vede l’ora che mi tolga dalle palle per poter fare quello che  vuole senza rotture di coglioni. Non sa che questa volta Dan è dalla mia parte, per cui anche lui glieli romperà. Ma ammettiamolo: lui è molto più soft di me. Poi dall'aeroporto chiamo Sofia. Adesso è in classe.


Cristina mi viene a prendere, un po’ in ritardo, e mi porta all’aeroporto. 

Sto per imbarcarmi per un viaggio lunghissimo: Boston-JFK; JFK-Amsterdam; Amsterdam-Milano. Come bagaglio a mano, mi porto il lavoro a maglia, una tavoletta di cioccolato e l’iPad con le cuffie.


Mi presento bella come il sole e con manicure fatta il giorno prima, e la signorina del check-in sembra molto carina. Le mostro i miei due passaporti, quello italiano e quello americano. “Mi dia il passaporto italiano, perché con il Covid magari non la fanno entrare”. La vedo un po’ titubante, poi chiama la collega, che comincia anche lei a battere velocissima sulla tastiera del computer. “Lo sa, vero, che il volo da JFK a Amsterdam e da Amsterdam a Milano è stato cancellato?”. No, altrimenti non sarei qui, rispondo con un po’ di nervi. “Facciamo così: non si imbarchi sull’aereo per NYC. Chiami la Delta e le cambieranno il biglietto”. 


Ansia. 

Tensione. 

Magone. 


Chiamo il numero verde e stranamente mi rispondono subito. È un uomo con un forte accento indiano. Mentre comincia a cercare un volo per l’Italia che parta oggi, io esco e vado nel chiosco dei fumatori. Mi fumo due, forse tre sigarette e dopo una mezz’oretta il signore gentile con l’accento indiano mi dice: “Corra a prendere l’aereo per NYC! C’è un volo diretto NYC-Malpensa. Gliel’ho prenotato!”. Spengo la sigaretta e corro al check-in. C’è un’altra signorina, altrettanto carina, che mi dice che il volo per NYC non accetta più valigie. In poche parole, l’ho perso. Mi si asciuga la bocca dal panico, dalla rabbia. 


Il motivo per cui partivo quel giorno era importante: mia mamma deve fare un esame medico che la preoccupa e le avevo promesso che l’avrei portata io. Spiego alla signorina che mia madre sta male (non è vero) e che devo essere a Milano entro domani mattina.


Chiama un suo collega. Spiega la situazione. Poi mi dice che c’è un volo che va da Boston a Atlanta, a Chicago a non so dove e infine a Milano, ma devo pagare novecento dollari in più. “Eh?!? Ma io ho già pagato il mio biglietto! È colpa vostra se è stato cancellato tra l’altro senza avvisarmi”. A questo punto sono incazzata. 


“Allora, il prossimo volo è mercoledì. Ah, e deve ripagare il biglietto Boston-NYC perché l’ha perso”. Le spiego che non l’ho perso, ma che la sua collega mi ha detto di non imbarcarmi. Io sono arrivata all’aeroporto in tempo. “Comunque sia, l’ha perso. Sono ottantadue dollari”. 


Pago. Ringrazio e me ne vado. Cerco un taxi. Torno a casa, con la mia valigia e tutto. La coda fra le gambe, il morale sotto i piedi.


Se qualcuno mi rivolge la parola viene vaffanculato velocemente, come un jet. 




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