Un anno quasi finito ieri









Mi ricordo che ero appena tornata da Milano, dove avevo presentato a destra e a manca il mio ultimo libro, Loro Fanno L’Amore (e io m’incazzo) e avevo abbracciato, baciato stretto la mano a centinaia di persone. 

Era febbraio del 2020 quando tutto il mondo ha cominciato a tremare.


Quindici giorni dopo il mio rientro, la scuola di Emma ha chiuso. Qualche giorno dopo, l’ufficio di Dan. Poi è stata la volta del centro di Luca e infine l’università di Sofia. Alla fine di marzo, eravamo in trappola. Ma all’inizio, sembra una trappola piacevole: non succede quasi mai che siamo tutti e cinque a tavola insieme per esempio, o che Dan lavori da casa. È vero, Luca era a casa e questo rendeva tutto più complicato per ovvi motivi, ma è anche vero che ce ne occupavamo a turno e alla fine della giornata, nessuno era particolarmente esausto. 


Poi non si è più potuto vedere amici o parenti, viaggiare, uscire, andare a fare la spesa o a mangiare fuori, e la sensazione di cuccicucci che avevo provato all’inizio si è trasformato in ansia. 


Poi è stato licenziato Dan. Dan è l’unico a guadagnare, in casa: tutti mi dicono che sono molto brava a scrivere, ma pochi, pochissimi sono disposti a pagare per quello che faccio. Praticamente, il mio è un hobby. Se Dan non lavora, dunque, significa che non entrano soldi. Ma non solo: significa niente assicurazione medica. Significa che non si può pagare l’università a Sofia. Per non parlare della profonda depressione in cui Dan sarebbe caduto da lì a poco. Fortunatamente, la ditta che ha licenziato Dan si è messa una mano sulla coscienza: in un periodo di pandemia mondiale, in cui nessuno assume, anzi peggio, in cui nessuno sa se sarà vivo dopo tre mesi, non siamo stati abbandonati con il culo per terra, e ci sono stati offerti sei mesi di aiuto economico e sanitario.


Per due mesi circa siamo rimasti in campagna, senza poter vedere nessuno ovviamente. Ogni settimana che passava, sembrava di sprofondare sempre di più in una palude profonda come l’universo. Le notizie da tutto il mondo parlavano di morti, di ospedali troppo pieni, di medici che morivano. Intanto, quel pirla di Trump diceva che magari bevendo la candeggina, tutto tornava a posto.

Poi, la curva ha cominciato a salire: prima di tutto, la scoperta del vaccino, che io, Sofia e Luca abbiamo potuto fare quasi subito. 


Dan ha trovato un altro lavoro (grazie, Santa Rita!) che fa da casa e le scuole hanno riaperto, anche se a distanza. Sembrava che tutto sarebbe tornato a una strana eppur promettente normalità, tranne che il centro di Luca, che era ancora chiuso. Io e lui siamo partiti per Milano - ci siamo riusciti perché siamo entrambi cittadini italiani - per cambiare aria, per cercare di fare qualcosa di diverso, per stare con la mia famiglia. Ma anche per provare a me stessa che avrei potuto farcela. 


A parte il fatto che Milano è diventata quasi subito zona rossa, ho dovuto ammettere a me stessa e agli altri che stare con Luca per due mesi da sola è praticamente impossibile. Siamo tornati negli States  dopo una trentina di giorni, io con la coda fra le gambe, stravolta. Sconfitta. Luca, invece, sempre sorridente.


Il centro di Luca aveva intanto iniziato ad aprire, poco per volta, ma per lui non c’era ancora posto: potevano frequentarlo solo poche persone. Poco dopo è anche successo che ho mandato a cagare la direttrice del centro, ho sbattuto la porta e ho disperatamente cominciato a cercare un’alternativa. 


Ormai era dicembre. Nove mesi chiusi in casa. Nove mesi di Luca sempre addosso, nove mesi di crisi di pianto di Emma che, povera, non ne può più; nove mesi di interruzioni costanti, momenti complessi. Nove mesi in un tunnel buio pesto. 


Ma il centro che mi è piaciuto mi ha contattato per dirmi che avevano deciso di accogliere Luca. Ero talmente felice da piangere, ignara del fatto che il dipartimento che si occupa di adulti con disabilità, quelli che hanno il coltello dalla parte del manico e sono pronti a conficcartelo nella schiena senza neanche dare spiegazioni, avrebbero potuto negare i fondi.

Ho chiamato Tim, il responsabile di Luca, e gli ho detto chiaro e tondo che non aveva scelta: o dava l’ok, o io gli spaccavo la chitarra in testa.

Dopo qualche giorno, anche Tim ha detto di sì. Vedi, a volte, la violenza?


Dopo 365 lunghissimi giorni è ritornato marzo, il mese che marca l’inizio del terrore, dell’inferno, di isolamento, di incubi. Un anno che ha fatto, solo negli Stati Uniti, più di mezzo milione di morti.


Un anno finito ieri, quando Luca ha cominciato a frequentare Nupath, il nuovo centro, che non aveva mai visto in vita sua. Non ci hanno ancora trovato lo scuolabus che può portarlo, per cui l’ho accompagnato io. Dopo quaranta minuti, l’ho fatto scendere dalla mia macchina rossa. Lui indossava la sua bella mascherina di Black Lives Matter e la giacca verde da militante di Democrazia Proletaria. Due signore che non avevamo mai visto sono venute a prenderlo. Lui si girava verso di me e diceva MOMMY! MOMMY!, mentre le due tipe mi chiedevano di andarmene, altrimenti sarebbe stato troppo difficile farlo entrare nell’edificio.


Le esperienze struggenti non finiscono mai. E noi non ci abitueremo mai.


Verso mezzogiorno mi hanno chiamato: Luca non voleva togliersi la giacca, non voleva mangiare, non voleva bere, non voleva andare in bagno e non voleva neanche stare nella stanza dove dovrebbe stare. “Magari oggi vieni a prenderlo prima: facciamo le cose con calma”. Me lo sono andata a prendere come se non lo vedessi da sei mesi, e felice come una Pasqua è entrato in macchina e mi ha detto: french fries!, che nella sua lingua vuol dire che è felice.


Appena riapre anche la scuola di Emma, mi ubriaco alle dieci del mattino.






Commenti

  1. Ma siiii! Deve fare l'inserimento. Poi tutto andrà bene, vedrai!

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