Sensi di colpa ne abbiamo?
Ogni mattina, quando arriva il pulmino che porta Luca al centro, quando Emma va a scuola e Dan si ritira nel suo ufficio nel sottoscala, io mi faccio un bel caffè e mi accendo il mio amato iPad. La prima cosa che guardo sono i titoli di Repubblica, dove spesso e volentieri trovo brutte notizie di femminicidi, figli che ammazzano i genitori o viceversa, Salvini che dice cazzate, la sinistra che si divide in un altro, microscopico partitino e litiga con gli altri ventitré. Cose così.
Poi apro il Washington Post, che di cattive notizie ne ha ancora di più: gente che entra nei locali o nelle scuole o nei posti di lavoro con fucili tipo guerra del Vietnam e ammazza tutti; gente che per colpa del Covid adesso non ha più casa; i repubblicani che insistono a dire che Trump è la persona più corretta nella politica americana; oggi c'era addirittura la notizia che in Arizona hanno deciso di ammazzare la gente in attesa della pena di morte con il gas, proprio come facevano i nazisti (non quelli dell'Illinois, ma quelli veri).
Insomma, mai una gioia.
Stamattina è uscito un bell'articolo sulla visita del neopresidente Biden a Tulsa, che è nell'Oklahoma, per parlare del massacro accaduto cento anni fa e di cui non sapevo nulla. Non sono l'unica a saperne poco, perché questo massacro, il più brutale degli ultimi cento anni, è stato in qualche modo rimosso dai libri di storia. A grandi linee è successo che il 31 maggio 1921 un uomo nero è entrato in un ascensore per bianchi, ed è stato arrestato perché una donna lo aveva accusato di violenza sessuale. La stessa sera un gruppo di bianchi armati si è recata nel quartiere nero, ha bruciato più case possibile, picchiato, sparato e ucciso più di una centinaia di neri. In migliaia sono rimasti senza casa.
Pazzesco.
Nessun presidente si era mai recato a Tulsa per ricordare questo orribile accaduto. Biden invece decide di farlo e il suo discorso parla di colpa: noi bianchi dobbiamo affrontare la colpa che abbiamo, direttamente o indirettamente, per quello che è accaduto.
La spiega meglio lui:
"La colpa è l'accettazione scomoda della nostra fallibilità. È la capacità di vedere non solo quello che è successo ad altri, ma anche quella di capire che tutti noi siamo coinvolti, forse non direttamente, ma per caso, forse non perché abbiamo agito, ma perché non abbiamo fatto niente, forse non nel senso individuale, ma collettivo. La colpa unisce i nostri compagni più intimi con persone che non conosciamo. Ci ricorda che siamo tutti custodi l'uno dell'altro. Ci ricorda di essere solidali".
Ho riletto queste parole un paio di volte prima di bermi l'ultimo sorso di caffè. Sono parole forti, forse un po’ bigotte, eppure mi hanno colpito profondamente. Prima di tutto perché sono quattro anni che non sentiamo una cosa intelligente che arriva dalla Casa Bianca, e dunque le parole di Biden mi rassicurano molto. Ma soprattutto perché parla della mia parte più debole, e cioè il forte senso di colpa verso le persone che non sono come me, e cioè bianche, europee, privilegiate. A differenza di molti americani, io sono cresciuta in un ambiente estremamente eterogeneo. Non ho mai incontrato nessuno che non fosse come me: cristiano, bianco, italiano, fino a quando avevo vent'anni.
Ho incontrato le prime persone diverse da me qui, negli Stati Uniti. Quando ho conosciuto Dan e ho scoperto che è ebreo, già mi sembrava un dettaglio enorme: in che senso non è mai andato a messa, non ha fatto il battesimo, la prima comunione? Non sa neanche fare il segno della croce, niente. Poi ho conosciuto persone diverse da me anche per il colore della pelle. Ricordo la prima persona nera che ho visto in vita mia: era inverno e, come gli altri, era vestito con giacca pesante, sciarpa e cappello, e io ho subito pensato che fosse buffo, perché per me nero vuol dire che viene dall’Africa, dove fa sempre caldo.
Insomma, provo un fortissimo senso di colpa nei confronti delle persone torturate, ammazzate, emarginate e sfruttate da quelli come me. Biden dice che anch’io, nel mio piccolo, sono colpevole per quello che è successo: non nel senso individuale, ma collettivo. Ha ragione: anch’io sono colpevole non solo di quello che è successo a Tulsa, ma anche per quello che succede quando una persona nera viene maltrattata o discriminata, e a volte non mi indigno come dovrei. Si chiama White Privilege: il privilegio che abbiamo noi bianchi di poter distogliere lo sguardo da una situazione terribile. Far finta di non aver visto o sentito nulla.
Faccio fatica ad avere rapporti di amicizia con persone nere perché non riesco a non pensare a quello che i loro genitori, i loro nonni e sicuramente anche i loro figli hanno dovuto e devono tutt’ora subire. Mi atteggio in modo goffo nei loro confronti: sono fin troppo gentile, fin troppo accondiscendente. Mi va bene tutto quello che dicono e che fanno. Hanno tutto il diritto di spuntarmi in faccia e trattarmi male. Dopotutto, ho la faccia dei loro persecutori, volente o nolente.
E poi mi dico: noto che molte persone che vedono in Luca una persona diversa da loro si atteggiano in modo un po' goffo. Non solo: sono anni che anch'io mi occupo di quelli che girano la testa dall'altra parte quando sentono notizie di torture e discriminazioni nei confronti delle persone disabili. Ok, concludo, mi sento un po' meno in colpa.
Chiudo l’iPad, pulisco la cucina, faccio una bella doccia e salgo nel mio studio, a pensare.
Foto presa da qui
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