Ma dov'è l'Indiana?









Non so voi, ma io non è che avessi tutta questa smania di vedere l’Indiana. Neanche l’Ohio se è per quello. Malgrado trent’anni di America, non sapevo neanche dove fossero sulla cartina. Dell’Indiana so due cose: è lo Stato in cui è nato David Letterman (figo), ma è anche dove è nato Mike Pence, l’ex vicepresidente degli Stati Uniti e forse l’uomo meno interessante al mondo. 

 

Eppure, la settimana scorsa, ho noleggiato un camion, io e Sofia l’abbiamo riempito come un uovo di tutto quello che mia figlia possiede, dal letto ai poster, dalle lenzuola ai pennarelli, dai vestiti invernali alle seicento magliette che ha. Insomma, l’abbiamo riempito e siamo partite. Direzione: ovest. Destinazione: Chicago.

 

Il primo giorno abbiamo (ho: Sofia non ha la patente) viaggiato per sei o sette ore di fila, per arrivare a Rochester, una città molto triste e deprimente nello stato di New York, vicino al confine con il Canada. Infatti, talmente vicino che la mia migliore amica Paula, che vive a Toronto, ha deciso di incontrarci proprio lì, a Rochester. Ha prenotato una stanza nell’albergo che avevo scelto io, e ci siamo incontrate lì. L’albergo faceva schifo. Sporco, puzzava di sabbietta per i gatti. Uno di quei posti che nel bagno, per terra, si trovano ancora i peli ricciolini del pube di qualcuno, per intenderci. Paula, che mi ha preso in giro per ore per la mia scelta discutibile, aveva portato una bottiglia straordinaria di bianco, metà della quale abbiamo bevuto prima di andare a cena. Sofia ci ha abbandonato quasi subito: a Rochester abita una ragazza per cui ha avuto una cotta terribile, soffrendo tremendamente. Ma pare che l’abbia perdonata, visto che ci ha lasciate alle sette di sera ed è tornata la mattina dopo. Buon per lei.

 

Io e Paula abbiamo scelto un ristorante a caso, di pesce. Abbiamo mangiato freddo perché avevamo centomila cose da dirci. Abbiamo anche colpito e affondato tutta una bottiglia di bianco, ottima. Siamo state le ultime ad uscire dal ristorante. Non ci siamo accorte che tutto lo staff ci guardava con odio perché era ora di chiudere e se ne volevano tornare a casa. Siamo tornate in albergo, siamo andate in camera sua e abbiamo continuato a parlare fino alle due di notte. 

 

L’indomani mattina, Sofia è arrivata presto e insieme a Paula siamo andate a fare colazione in un posto stranamente carino, che l’amica di Sofia ci ha consigliato. Più che altro hanno parlato Sofia e Paula. Paula è docente di comunicazione, presidentessa di un’enorme associazione femminista a livello mondiale (l’anno scorso si sono tutte incontrate a Tokio), e bisessuale. Tutte cose che vanno venire a Sofia l’acquolina alla bocca. Vederle chiacchierare, ascoltare Paula che riesce sempre a raccontare storie interessantissimo, Sofia che le chiedeva informazioni, consigli, è stata senza ombra di dubbi la parte più bella del viaggio.

 

Poi, sempre con il nostro camion, io e Sofia siamo arrivate a Cleveland, che Google maps mi ha giurato di essere nell’Ohio. Circa sei ore di macchina da Rochester. Dan aveva fatto tutte le sue ricerche e ci ha consigliato di andare a mangiare in un posto downtown, cosa che abbiamo fatto. Eravamo stanche, ma questa sarebbe stata l’ultima cena insieme. Mi sono sentita sfigata: manco c’era Leonardo a fare, non dico un quadro, ma almeno sei righe di matita. Transit. Abbiamo ordinato un cocktail, una cena fin troppo buona, e abbiamo parlato tanto. 

 

Questo non è lo stesso viaggio che avevamo fatto quando Sofia è andata al college, quattro anni fa. Questo ha un tono adulto, è ben più definitivo. Sofia si è laureata e ha deciso di iniziare la sua vita da adulta a Chicago, dove spera di lavorare per il primo anno e poi iscriversi a un Master di studi per diventare curatrice nei musei. Questa volta, la mia bambina è donna, è lanciata, è piena di progetti, di voglia di scoprire una città nuova, voglia di mettersi in gioco, in pista senza di noi. Ecco, quella sera il magone è stato più difficile da mandar giù, Continuavo a dirmi che se Sofia è così, significa che io e Dan l’abbiamo preparata al punto giusto per lasciarla andare davvero, con fierezza, senza preoccupazioni. Sofia adesso è davvero grande.

 

È stata la mattina dopo, che invece di trovarmi nel girone più orrendo dell’inferno, mi sono trovata in Ohio prima, e poi in Indiana. I due Stati sono simili: c’è l’autostrada principale che attraversa una specie di pianura padana, ma mille volte più grande. È tutto piattissimo, le fattorie (ho visto solo fattorie) ricordano uno stile olandese. Attorno a noi era tutto piatto, come le tette di mia sorella, verdi come le montagne della canzone. Il viaggio è durato circa sette o otto ore. Un’infinità.

 

Finalmente, arriviamo a Chicago. Io sono emozionata perché la mia band preferita, Wilco, è di Chicago. Sofia è emozionata perché finalmente è arrivata. Malgrado Wilco, la parte superiore del mio corpo, dal piloro in su, è un blocco di emozioni, di tristezze e fierezze, di stanchezza e gioia, di paura di essere troppo lontano dalla mia Sofia. Con le poche forze rimaste, scarichiamo, abbracciamo le sue due amiche con cui condivide l’appartamento, ordiniamo messicano, mangiamo di fretta e alla fine, ci salutiamo. Ho pianto come è giusto piangere, mentre sono affiorate in superficie tutte le mie emozioni. Ci siamo abbracciate fortissimo nella sua stanza piena di scatoloni. L’ho baciata e ribaciata; sono andata a riportare il nostro camion, con cui stava nascendo un affetto inaspettato, sono andata in albergo e mi sono ubriacata. Poi, la mattina dopo ho preso un aereo per Boston e da lì la mia macchina, che ho guidato per due ore, fino a Becket.

 

Tutto questo per dire che, credetemi: l’Indiana si può anche non vedere.

 

 

 

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