La foto






Ci ho impiegato mesi, chissà poi perché, ma finalmente ho fatto stampare una foto di mia mamma e Luca, l’ho incorniciata e l’ho portata a Becket. Adesso è lì, sullo stesso ripiano dei liquori e delle altre cose importanti, che troneggia. 

 

Ricordo come fosse ieri il giorno in cui scattai quella foto. Io e Luca eravamo appena arrivati a Milano con l’intenzione di starci per un paio di mesi. Era settembre, e il mondo era in pieno Covid. Avevo affittato un piccolo appartamento per me e Luca a cinquecento metri da casa della mamma. Lei e mia zia Milena, qualche giorno prima del nostro arrivo, avevano riempito il frigorifero di sughetti fatti da loro, budino al cioccolato e latte per Luca. 

 

Anna era venuta a prenderci alla Malpensa. Luca era stravolto, non solo per il viaggio ma anche per le due pastiglie di calmante che gli avevo dato in aereo, nella speranza che si addormentasse. Cosa che accadde, circa dodici minuti prima dell’atterraggio. Ci vollero ben tre persone per schiodarlo dal suo posto in aereo e metterlo sulla sedia a rotelle che lo aspettava appena fuori. 

 

Abbiamo aspettato Anna con il signore gentile che guidava la sedia a rotelle, che ha chiamato Anna con il suo cellulare per spiegarle bene dove aspettarci. Saliti in macchina, Luca era fortemente sedato e dormiva, mentre io e Anna chiacchieravamo. Diceva la che mamma faceva un po’ di fatica a camminare, ma che secondo lei un po’ esagerava. “Vedrai”, mi diceva, “prima cammina malissimo, ma dopo un po’ cammina lenta ma molto meglio”. La cosa, in un certo senso, mi aveva tranquillizzato.

 

Arrivate in via Lomellina, dove c’era l’appartamento che avevamo affittato, abbiamo cominciato a scaricare la macchina. Luca intanto dormiva. Da lontano ho visto la mamma che ci veniva incontro, camminando molto lentamente. Sono corsa verso di lei e le ho dato un abbraccio fortissimo, non vedevo l’ora di vederla e di iniziare con lei la nostra avventura milanese. “Cammino molto male, mi spiace che tu mi veda così” aveva detto subito dopo l’abbraccio. Era bellissima. Ma va, che cammini benissimo, le avevo detto nascondendo una punta di apprensione. Passo passo siamo arrivate davanti al portone. Luca era ancora in macchina e si stava svegliando. La mamma aveva aperto la portiera per salutarlo, ma lui ad un tratto era molto agitato e disorientato. Mi ero dimenticata di dirgli che a Milano non saremmo stati a casa della nonna, che lui chiama “Elevator”, ma in un altro appartamento. Sceso dalla macchina, comincia a fare una vera e propria lotta con me: cerca di scappare, fa di tutto per non entrare nella casetta che non conosceva. Dico a mia madre di allontanarsi, perché Luca quando mena, mena. Lei ci osservava e sul suo viso ricordo un’espressione di profonda tristezza dovuta forse all’impossibilità di aiutarmi. Io ero mortificata: avevo sperato fino all’ultimo di mostrare alla mia famiglia un Luca tranquillo, composto, migliorato rispetto alle volte precedenti, ma non eravamo ancora entrati nella casetta che già stava dando fuori di matto. Non so come, sono riuscita a farlo entrare in casa.

 

Mia mamma aveva ritrovato un gioco che anni e anni prima era il preferito di Luca e che era a casa sua; lo aveva lavato e aveva aggiunto le pile. Lo aveva messo lì, sul tavolo della cucina, e Luca l’ha subito preso in mano e ha cominciato a schiacciare tutti i bottoni. No solo: finalmente si è calmato e ha addirittura sorriso.

 

Mia mamma si era seduta su una delle due sedie, e Luca si era piombato in braccio a lei. In quell’istante, ho scattato la foto che adesso troneggia a Becket.

 

Stamattina, mentre portavo i cani a fare una passeggiata, ho raccolto dei fiorellini che ho messo di fianco alla foto. “Ciao, mamma. Ho trovato dei fiorellini gialli stamattina e poi uno grande, bianco, che li protegge. Come facevi tu con noi. Mi manchi da morire”. 

 

E poi, come ogni volta, ho pianto.



Commenti

Posta un commento

Post più popolari