Non mi viene (quasi) più da piangere



 

 





Certe volte ho paura di non piangere più abbastanza per la morte della mamma. Senza dubbio è un chiodo fisso, è una mancanza viscerale. Ma è anche vero che, a differenza di mesi fa, piango meno. La paura è che questo significhi accettare che non ci sia più, ma non solo: che la sua mancanza mi pesi meno.

 

Ci pensavo oggi, quando ero in macchina da sola. È ancora autunno, e a Becket ha già nevicato un paio di volte. La Route 20, che prendo ogni volta che vado da casa a Lee, il paesino a venti minuti che ha supermercati, negozi e ristoranti, è bellissima. Attraverso molti boschi, che adesso sono spogli e mi viene sempre da pensare che la natura è proprio strana: proprio adesso che viene il freddo, gli alberi decidono di togliersi tutti i vestiti. Mi fa freddo solo a vederli. 

 

Ad un certo punto, sulla sinistra si vede un grande lago, bello, circondato da casette tutte di legno e di alberi, mille alberi. La strada attraversa una collina, e a seconda dell’altitudine si vede un paesaggio diverso. Le sue curve morbide rendono la guida divertente, non ci si annoia mai quando si guida per la Route 20. Mi ricorda sempre un po’ la prima scena del film The Shining, quando la famigliola è in macchina per andare al famoso albergo. 

 

Stamattina, dopo essere andata alla discarica, sono venuta a lavorare alla biblioteca di Lee. In macchina da sola, dicevo. Ascolto sempre la musica, e in particolare una playlist che mi sono fatta di tutte le canzoni che mi piacciono di più. È lunghissima, e infatti è difficile ascoltare una canzone più di una volta. Beh, proprio mentre alla mia sinistra spuntava il lago, sono cominciate le note della canzone Io Che Ho Avuto Solo Te, che abbiamo ascoltato durante il funerale di nostra madre. 

 

Fino al mese scorso, alla terza nota il mio viso si riempiva di lacrime, se stavo guidando dovevo fermarmi perché mi si annebbiava la vista. Me ne stavo lì, sul ciglio di una qualsiasi strada, e aspettavo la fine della canzone per smettere di singhiozzare.

 

Oggi, invece, non ho pianto. Cioè, avevo gli occhi lucidi, ma non mi sono dovuta fermare. Oltre al magone, mi è nata la paura di non essere più così disperata. Non voglio che la perdita di mia madre diventi un fatto della vita, difficile, eppure accettabile. Voglio che rimanga sempre un dramma terribile, una spina nel cuore che si muove tutti i giorni per provocarmi un dolore assurdo. 

 

La paura ha trascinato i suoi ovvi sensi di colpa, e adesso sono seduta in biblioteca e mi sembra di essere una persona poco sensibile, a cui ormai la morte della madre non è che un dolore lontano, superato, vecchio. Insomma, una stronza. 

 

Sono anche arrivata a pensare che, a differenza della mamma, papà è davvero morto, per cui è giusto pensare più a lui che a lei. Lei è morta, ma quando vado a Milano, tra le sue cose, nei suoi spazi, c’è ancora eccome. Sento addirittura il rumore dei suoi passi con le pantofole che le avevano regalato le sorelle per un Natale. È morta, ma in fondo c’è. Non come papà, che è morto e ormai davvero non c’è più. Addirittura, mi è capitato di pensare, scacciando subito il pensiero, di avere un rapporto migliore con papà che con la mamma. Sono quarant’anni che io e lui abbiamo un’intesa metafisica, per così dire. Comunichiamo benissimo così, tanto che la sua assenza è ormai diventata a tutti gli effetti una presenza. Con la mamma non sono ancora capace di instaurare un legame che permetta di parlarci, perché è troppo vivo il nostro rapporto terreno per riuscire a trasformarlo in altro. Mi sento ancora nelle orecchie la sua voce quando, alla fine delle telefonate giornaliere mi diceva, mi raccomando, fai la brava.

 

Dai mamma, basta! Torna e facciamo come se niente fosse, va bene?

 

 

 

 

 

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