Prince Street, Cambridge







Come tutte le mattina, anche ieri Emma, tra vestiti, trucco e parrucco ci ha messo tre ore per prepararsi per andare a scuola, e verso le otto e venti, come tutte le mattine, ho cominciato a dare fuori di matto perché siccome la accompagno io mi stufo di aspettarla. Come tutte le mattine, ieri le ho detto:” Ti aspetto in macchina” per calmare i nervi e anche per liberare la mia Jetta rosso fuoco da un parcheggio oggettivamente scomodo. Come ogni mattina, sbuffo.

 

Ah, un attimo: per raccontare questa storia devo prima spiegare dove viviamo, altrimenti non si capisce. Sulla nostra strada, Prince street, le case sono tutte di legno, ognuna di un colore diverso. La nostra, a schiera, è attaccata ad altre due. Noi viviamo in quella di mezzo. Il retro di ognuna delle casette ha una porta a vetri che dà direttamente a una piccola veranda. Oltre alle tre verande, c’è un sentiero pavimentato con dei mattoni, oltre il quale ci sono altre quattro casette, anche loro a schiera, più piccole delle nostre. Da una parte, il sentiero porta al parcheggio. 

 

Ieri mattina faccio per aprire la macchina e dal sentierino che divide il retro della nostra casa dalle altre quattro vedo arrivare un uomo. È anziano, con una giacca molto sporca, i capelli tutti in piedi, i pantaloni stropicciati e una valigia blu, anch’essa sporca. Lui mi guarda. Io lo guardo come a dire: “Ma hai dormite su uno delle nostre verande?” I suoi vestiti e il suo modo di presentarsi mi fa subito pensare che si tratta di un senzatetto e che si è appena svegliato e adesso se ne torna in Central square, a dieci minuti da Prince, dove ogni giorno si riuniscono molti homeless. 

 

Non so perché, ma questa presenza mi mette un po’ a disagio. C’è, è vero, un signore senza dimora che il giovedì sera viene a prendere i vuoti di bottiglia che lasciamo da parte per lui, cosicché possa venderli a cinque centesimi l’uno. Ma ha un viso che conosco bene, completamente diverso da questo. Infatti, è asiatico. Questo invece sembra uno dell’Europa dell’Est. Il disagio si trasforma quasi immediatamente in una specie di paura/paranoia: noi non chiudiamo mai a chiave la porta del retro e la possibilità che qualcuno possa entrare senza neanche far fatica è alta; spesso le biciclette che io e miei vicini parcheggiamo nel sentierino vengono rubate. 

 

Insomma, mi sono fatta un film che neanche Sorrentino.

 

Nel frattempo, però, arriva Emma, tutta truccata, trafelata e incazzata perché l’avevo sgridata da poco. Anche lei vede il tipo e fa: “Ma chi è?” Quando inserisco la prima e mi dirigo verso la scuola di Emma, il signore è in piedi nel mezzo del parcheggio. È al telefono. 

 

Mentre guido, chiamo Dan a casa per dirgli di aver visto una persona senzatetto sbucare da dietro la casa e se potesse andare a controllare. Poi cerco di sciogliere il muso di Emma con due battute, senza tra l’altro riuscirci. Dopo venti minuti, rientro a casa.  Dan mi racconta di aver parlato con il signore, che non è un senzatetto, ma una persona che ha passato qualche giorno ospite dei vicini e stava chiamando un taxi per andare in aeroporto.

 

In sociologia, tutto questo si chiama profiling, che significa che quando si vede una persona, la si piazza automaticamente in un certo gruppo sociale solo per il suo aspetto. Sostanzialmente, grazie ai nostri pregiudizi la giudichiamo, ci insospettiamo. Non è una cosa giusta da fare, né bella. È purtroppo uno dei motivi per cui la polizia americana tende a fermare macchine con guidatori neri: se sei nero, probabilmente hai una pistola, della droga, sei un poco di buono. Profiling è da stronzi, in poche parole.

 

Io, che scrivo con fierezza sulla rivista di strada Scarp de Tenis per denunciare la marginalizzazione e il poco aiuto che i governi offrono ai senzatetto, io che sono fiera del mio essere di sinistra, socialmente liberale, che insiste che chi ha pregiudizi è in fondo razzista, sessista, ignorante, io ci sono cascata. In fondo, ho scoperto con un imbarazzo terribile, alla fin fine sono come loro.

 

Mi sono sentita proprio una radical chic di merda: i propositi per una società più equa, più integrata sono essenziali, sono sacrosanti, ma quando si tratta di casa mia divento conservatrice, sospettosa, gelosa dei miei spazi. Avrei voluto andare dal signore e scusarmi per aver pensato male. Per dirgli che anche se fosse stato un senzatetto avrei dovuto provare compassione e non disagio. 

 

Gli avrei anche detto, già che c’ero, di lavarsi la giacca e di pettinarsi meglio. Perché va bene essere di sinistra, ma l’igiene non appartiene a nessun partito. 

 


(nella foto: Emma prima che si arrabbiasse con me per ogni minima cosa)

 

 

 

Commenti

  1. Ma noooo. La sua reazione è stata più che naturale! Una reazione di difesa verso casa, figli, averi. È naturale essere diffidenti. Poi se uno di prima mattina esce di casa come se avesse passato un mese in un campo profughi...lavarsi costa poco!

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  2. Capisco perfettamente... Negli ultimi anni faccio sempre più fatica a mettere d'accordo le mie paure con i miei "ideali" di fraternità cosmica.... Ho paura del diverso...ho paura perché io normalmente "vengo in pace" ma non sempre questo vale anche per gli altri....e tutto questo mio scombussolamento non mi piace 🙁 Un abbraccio

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