Mens sana in corpore sano

 




Sean è un nostro amico caro; da ragazzi lui e Dan stavano sempre insieme. Erano, come si dice nei film di Walt Disney, best friends forever. Sono passati tanti anni da quando lui e la sua famiglia si sono trasferiti lontano da qui, ma grazie alla festa annuale a Becket, dove Sean cerca sempre divenire, e ai social, siamo comunque rimasti in contatto.  Due settimane fa, Dan riceve un messaggio da Sean: “Sto bene, ma ho avuto un infarto. È stato preso in tempo, ho già ripreso ad andare in bici, ma mi sono molto spaventato”. Dan l’ha immediatamente chiamato, sono stati cento ore al telefono: voleva assicurarsi che stesse davvero bene.

Per un’ipocondriaca come me, questa è stata una notizia agghiacciante: siamo nell’età in cui queste cose possono succedere. Io sono donna, quindi più suscettibile a problemi di cuore; le mie nonne sono morte per problemi di cuore. Non sono cicciona, ma dovrei perdere del peso; fumo, bevo, non faccio molto esercizio.

 

Quella sera, infatti, è arrivato puntuale come un treno svizzero un dolorino appena sopra il cuore e poco dopo mi faceva male anche la spalla sinistra e il collo. Non avevo dubbi: mi stava venendo un infarto. Dopo essermi bombata di Lorazepam, ho annunciato a Dan che stavo morendo, ma che, se come è successo a Sean, fossi andata subito al pronto soccorso magari mi sarei salvata. Dan mi conosce orami troppo bene: se Sean avesse avuto un callo, stai pur certo che sarebbe venuto anche a me. Ma questa volta, invece di tranquillizzarmi, ha ribadito che: 1) sono scema e  2) siccome l’età è quella che è, dovremmo sforzarci a vivere in modo più sano. 

 

Tutto questo per dire che sono sue settimane che vado sul tapis roulant per 40 minuti (non corro, ma cammino a passo svelto), bevo del vino a tavola e poi basta, vado a letto alle dieci emmezza e mi sveglio alle sette e quaranta. Mangio soprattutto pesce o vegetariano e le proteine le rubo ai legumi, con cui faccio minestre che neanche Bottura (no, l’altro). 

 

Stamattina, dunque, dopo essermi svegliata alle sette e un quarto (non mi svegliavo alle sette e un quarto da quando andavo alle medie), ho aspettato il pulmino di Luca con lui, ho portato Emma a scuola, i cani fuori e poi mi sono bevuta un caffè con mezzo cucchiaino di zucchero. Poi, tapis roulant: l’ho massacrato, come direbbe Abatantuono. Alla fine era lui che mi implorava di smettere. Ho fatto un bucato, messo via quello di ieri, doccia. Prima di andare nel mio studio, mi sono fatta un altro cafferino fumata una sigaretta, perché ad un certo punto mi sono anche detta: va bene essere brava, ma non esageriamo.

 

Ho lavoricchiato (devo dire che sono un po’ bloccata sul mio progetto), mangiato la mia insalata sfigata e un’arancia.  Continuavo a guardare l’orologio, perché dopo mesi di ricerca, ho finalmente trovato una terapeuta su cui buttare tutte le mie sfighe, ansie, pensieri cattivi. Mens sana in corpore sano, no? Obbiettivo: arrivare quest’estate a essere una ventiseienne magra, intelligente, interessante e mentalmente equilibrata, e con gli occhi verdi grandi come piazzale Susa.

 

Premessa: non ero agitata, non ero triste, non mi ero preparata nulla da dire. Dopotutto era la prima seduta e avremmo parlato di cose più tecniche: l’assicurazione, le medicine che prendo, la mia situazione famigliare. Invece sono partita in quarta: dopo venti minuti già piangevo a dirotto raccontando come io sia impaurita da qualsiasi segno di aggressività, non fisica, ovviamente, ma un tono un po’ scontroso, una frase buttata là che fa male e io divento piccola con una formica. Da sempre: mio padre mi chiamava Oca da piccolina, perché preferivo stare tra le nuvole. Ho sempre preferito rendermi trasparente per proteggermi. 

 

Insomma, alla fine della terapia, ero stravolta, La terapeuta, scioccata dalla vomitata di parole, ha solo detto: “Wow!”. 


Mercoledì prossimo, ancora.



Nella foto, non sono io.

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