Qualcuno la chiamava gabina



 





Sono stata ragazza nel periodo storico in cui non esistevano i telefonini e neanche Internet. Chi voleva fare una telefonata negli Stati Uniti e non poteva farla a casa perché la mamma l’avrebbe ammazzata, andava in una cabina telefonica. Qualcuno la chiamava gabina. 

 

Avevo vent’anni ed ero tornata da poco a Milano. Avevo passato un anno a Amherst, un paesino molto piccolo a due ore a ovest da Boston, dove avevo trovato l’amore della mia vita. Guarda te se dovevo andare fino a lì per trovare la persona nata per essere amato follemente da me.

 

Giacca di pelle nera un po’ rovinata come tutte le giacche di pelle nera come si devono, jeans neri e affusolati che nascondevano due gambe che le sorelle Kessler ma spostatevi proprio, capelli neri, tutti un ricciolo, ma un po’ lunghi, quindi tutto un boccolo. Stivali come potrebbe averli Bruce Springsteen, anche loro rovinati, ma nel modo giusto. Apre la porta di un appartamento pieno di gente del cazzo, ubriaca che parlava solo inglese, parole che non avevo ancora imparato al corso. Presente i film quando uno apre la porta, si illumina la stanza, tutto il rumore attorno diventa di sottofondo, il venticello che scompiglia un po’ i capelli? Uguale. La giacca di pelle nera viene dritta da me, come se già ci conoscessimo e mi fa: “Ciao, io sono amerihano”. Era appena tornato da Siena e per lui la ci si pronunciava così. Devo ammettere una cosa: allora, modestamente, ero magra e bella, e avevo un paio di fuseaux verdi. Insomma, non per dire, ma anche io avevo fatto la mia porca figura. Quando mi ha parlato, mi sono dovuta sedere. Dopo due ore, gli avevo chiesto due cose: 1) un passaggio a casa in macchina e 2) il numero di telefono. Da quel momento in poi, sono stata follemente innamorata, roba da film melensi. In questo preciso istante, senza più la giacca di pelle nera, con i capelli bianchi, che sono diventati dritti, e un paio di jeans color pantaloni jeans, sta lavando i piatti in cucina.

 

Ma allora, dopo il mio rientro a Milano, per sentirlo, mi toccava tenere da parte centinaia di cento e duecento lire. Poi, qualche anno dopo, c’era la tessera telefonica, anche più comoda da trasportare. Ma per anni, si andava di monete. Andavo in via Battistotti Sassi angolo piazz’Adrigat, proprio davanti al portone in cui mia mamma e mio papà sono cresciuti. Ricordo come fosse oggi l’odore della cabina, il rumore che faceva il telefono ogni volta che si mangiava una moneta e la mia frenesia nel comporre il numero, che era lunghissimo. Ricordo il cuore alla gola quando diceva hello, quando poi la voce diventava felice di sentirmi. 

 

Dunque, la cabina telefonica per me rappresenta tutt’ora un luogo in cui provare delle emozioni fortissime. Una scatola che per me diventava una specie di amica, un involucro che mi proteggeva e divideva da tutto quello che stava fuori. Eravamo solo io, lei con il suo pavimento grigio, la cornetta e mille monetine. D’altronde, anche Hitchcock ha pensato di usare la cabina telefonica come protezione, come posto in cui fuggire da una realtà che spaventa. Ecco, come diceva mio padre, mi ha rubato l’idea*. Capita spesso, d’altronde.

 

Poi, quando la giacca di pelle nera si è trasferita a Milano, ho frequentato molto meno le cabine telefoniche, che invece offrivano un luogo privato per farsi di eroina, per farci dentro l’amore o per cercare di rubare le monetine. Avevano preso una brutta strada. E poi, adesso, non se ne vedono più in giro. 

 

Peccato. Sono state sempre dei bei luoghi da frequentare.

 

 

 

 

*Quelli che Fellini gli ha rubato l’idea.

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