Un oggetto che ci manca: Fabrizio Ravelli








Sono abbastanza vecchio per ricordarmi quando nei giornali c'erano le macchine da scrivere, e i computer erano di là da venire. Si dice macchina per scrivere, a voler essere a modo, ma l'abbiamo sempre chiamata da scrivere. A Repubblica, agli anni inizi cioè anni '70, avevamo delle Olivetti Studio 46: azzurre, robuste, una via di mezzo fra le portatili e quelle da ufficio, e da portare in giro parecchio pesanti. Belle macchine, si potevano alzare in verticale per fare spazio sulla scrivania. Quando c'erano le macchine da scrivere, e tutti scrivevamo alla stessa ora, in redazione c'era un casino pazzesco. Che bello, una musica. Vale la frase di Gianni Mura, che ha resistito tenacemente con la sua Lettera 32 battezzata “Martine”: in una sala stampa affollata una giornalista gli chiese se non pensava che il suo mitragliare potesse dar fastidio agli altri. “Siete voi che date fastidio a me col vostro silenzio”. E infatti ci si abituava, anzi ci  si affezionava al rumore, e intanto si imparava a lavorare nel mezzo di qualunque casino.

Io per andare sui servizi fuori usavo una Lettera 22 che era di mio padre (no, non era un giornalista). Macchina leggendaria, finita in tutti i musei del design. Una collega giapponese mi chiese una volta (in Portogallo, forse) di vendergliela, e offriva una bella cifra, ma dissi di no. Ci ho scritto il primo pezzo uscito con la mia firmetta, era un'intervista a Bruno Brancher, ex-rapinatore balbuziente, ex-carcerato, poi scrittore. Il 98  per cento dei giornalisti scriveva con due dita. Guido Vergani con un dito solo perché con l'altra mano doveva reggere la sigaretta. Silvia Giacomoni con 10 dita come una segretaria, la invidiavo. Il mio amico Giuliano Marchesini della Stampa anche lui con 10 dita, aveva imparato nelle trasmissioni dell'esercito. Senza guardare la tastiera, lasciando vagare lo sguardo. Si interrompeva solo per riflettere e si tirava il labbro inferiore come se fosse di gomma. Quando sono arrivati i computer io mi sono portato via due Studio 46, la mia e un'altra, tanto le avrebbero rottamate, e ce le ho ancora in campagna. Ho ancora la Lettera 22, e anche una Lettera 32 come quella di Mura, comprata per 15 mila lire a un mercatino a Lambrate. Ho anche un modello Olivetti di antiquariato, tutta nera, una Studio 42 degli anni Quaranta, e una Valentine, quella famosa di Sottsass. Funzionano. Ho perfino trovato dei nastri. Ho nostalgia anche del campanello che faceva dling a fine riga.




Fabrizio Ravelli, oltre che una persona straordinaria, è anche un giornalista di Repubblica


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