2Mila miglia con un marziano. Quarta tappa: Detroit, Michicgan



Siamo partiti da Chicago un po’ tristi, perché comunque sia, lasciare un figlio lontano non è mai molto bello, anche se ha 23 anni, un lavoro, una casa, un compagno e tanti amici. Ma Detroit ci chiamava, a modo suo.

 

Quattro ore e tre quarti di macchina ci aspettavano sotto un sole particolarmente caldo. “Luca, smettila di tirarmi i capelli!”. Adesso lo mettiamo nell’ultima fila. No, dai, l’ultima fila no, ché è scomodissima. Ci siamo fermati un paio di volte, e finalmente, da lontano, abbiamo cominciato a intravvedere lo skyline della città. Già prima di arrivare, si è capito che Detroit è una città ben diversa di Chicago. Un tempo molto ricca grazie all’industria automobilistica, è stata completamente abbandonata non soltanto dai suoi cittadini, ma soprattutto dalle forze dell’ordine, che non osano neanche andare in certi quartieri, e dalle amministrazioni. Sembra infatti un posto in cui è caduta una bomba atomica. Come nelle altre città che abbiamo visitato, esiste ancora una piccola parte della città in cui vivono le persone abbienti, che guarda caso sono anche tutte bianche. 

 

Quando penso a Detroit, mi viene in mente prima di tutto Stevie Wonder, che mi ha accompagnato durante la mia vita da adulta e che ancora adesso spesso mi fa compagnia e poi il documentario Searching for Sugar Man, che avrò visto cento volte e che ancora non mi ha stancato. Speravo di incontrare sia Stevie che Sixto Rodriguez per strada, invece anche questa volta mi è andata male. 

 

L’appartamento che abbiamo affittato per quella notte era bellissimo. La camera di Luca era separata dalla nostra da un separé molto carino, disegnato a mano. Roba da ricchi, insomma. Nella sua stanza c’era una specie di altalena, che Luca ha inizialmente snobbato, ma poi scoperto essere una figata pazzesca. In sala, dietro alla televisione, era appesa una grande bandiera della città: al centro ci sono due donne, alla sinistra un rogo e a destra una città ricostruita. Abbiamo poi scoperto che nell’Ottocento, la città venne rasa al suolo da un incendio terribile e che si dovette ricostruire praticamente da zero. La scritta, in latino perché evidentemente tutti nella zona lo parlano benissimo, dice SPERAMUS MELIORA. Speriamo che vada meglio. Cosa posso aggiungere. Oh, speriamo!

 

Siamo arrivati che erano le otto di sera e abbiamo subito ordinato da un ristorante della zona, asiatico, molto buono. Andando, Dan ha fatto un giro in macchina per la zona ed è tornato soddisfatto: tutto molto bello. Case pazzesche. Giardini all’inglese. Ristoranti, localini, caffè. Alle dieci emmmezza dormivamo tutti e tre, ma un suono terribile ci ha svegliato di soprassalto: Luca aveva fatto cadere il separé per terra, spingendolo come se fosse stata una porta. Poco male: Dan ha controllato che non fosse rovinato e così è iniziata la nostra giornata. Doccia, colazione, giro turistico in macchina e partenza per la tappa successiva: Toronto, che è in Canada, a cinque ore circa da Detroit.

 

Il giro turistico, tristissimo, è stato spunto di una discussione fra me e Dan. Detroit è una città nera, con un’amministrazione nera. Dan insiste a dire che deve essere confortevole vivere lì se si è afroamericani o caraibici. Per una volta, dice, siamo noi bianchi a sentirci un po’ fuori posto. Il mio punto di vista, invece, è un po’ diverso: è una città lasciata andare in rovina, e non credo che sia una coincidenza che sia abitata dalla parte della popolazione americana più povera, come se ci fossero due standard. Tutti abbiamo il diritto di vivere in una città dignitosa, con i servizi che funzionano, con le scuole che funzionano, con le infrastrutture che funzionano, con meno violenza e disperazione. Come ci si fa a sentire a proprio agio in un posto del genere? Mi è sembrata una forma di razzismo terribile e indicibile. “Ma l’amministrazione sta facendo progressi!”, risponde Dan. Altro che amministrazione: per ristrutturare una città così abbandonata ci vogliono soldi federali, supporti provenienti da ogni risorsa possibile. Altro che amministrazione locale!

 

Durante la conversazione, la padrona di casa dove abbiamo passato la notte, ci chiama: “Ma cosa avete fatto al mio separé? È tutto rovinato! L’avevo fatto dipingere a mano quando i miei figli erano piccoli, e ricordo che la mia bimba si svegliava la mattina e stava per ore a guardare i disegni… È il pezzo più prezioso che ho in casa…Adesso come facciamo?”. Bravo, Luca: facciamoci sempre riconoscere! Avremmo dovuto mandare un botto di soldi alla signora, che in realtà è stata molto più gentile dopo che abbiamo usato il nostro jolly: Scusi, ma nostro figlio è autistico e non ha fatto apposta… Funziona (quasi) sempre! Ci ha fatto pure uno sconto dicendo, alla fine, che dai, sono cose che succedono.

 

A malincuore abbiamo buttato nel cesso la marijuana che avevamo comprato (legalmente) a Cambridge; abbiamo finalmente spostato Luca alla fila in fondo per evitare di compiere, ridendo, un omicidio premeditato e ci siamo messi in fila per attraversare la frontiera e arrivare in Canada. 


(Testo di Marina, foto di Dan)










Commenti

Posta un commento

Post più popolari