Adesso, si balla






Non è che non lo sapessi. Sapevo da tempo che le persone che hanno comprato la nostra casa a Milano faranno una ristrutturazione totale: si abbatteranno muri, se ne faranno degli altri; si toglierà il marmo della sala; si creerà un pianerottolo fra la porta dell’ascensore e quella delle scale; lo spazio sarà diviso in due appartamenti; la cucina, i bagni, le camere da letto diventeranno altro da quello che sono sempre stati. Si spezzerà il corridoio, il parquet, il terrazzo. 

 

Quello che non sapevo era come avrei vissuto l’ultimo giorno passato lì dentro. L’ultima volta che schiaccerò il pulsante 4 dell’ascensore; l’ultima volta che camminerò a piedi nudi in sala; l’ultima volta che alzerò le tapparelle, che farò pipì in quel bagno, o un caffè, o una doccia. 

 

Era un giovedì. Mi sono alzata verso le nove pensando: ecco, l’ultima notte che ho dormito nel mio letto della mia camera della mia casa nella mia Milano è passata relativamente tranquilla. Assonnata, sono arrivata in cucina, dove ho riempito di acqua e caffè la caffettiera da tre. Sono andata in sala a tirare su le tapparelle e ad aprire un po’ le finestre del terrazzo. Ho tenuto invece chiuse le due che danno sul cortile, per il terrore che qualche piccione ribelle entrasse. Se fosse successo, sarei probabilmente morta, per la prima e l’ultima volta, sul marmo rosa.

 

Sono tornata in cucina e mi sono versata tutto il caffè. Di questo gesto, pensavo, non sarà l’ultima volta: dopotutto, dopo pranzo mi faccio un altro caffè e domani mattina, prima di andare in aeroporto, me ne farò sicuramente un altro. Ero relativamente tranquilla, a quell’ora. Ho preso il mio iPad e ho aperto l’app de La Repubblica. Ho letto soltanto i titoli, lo ammetto. Anche questa non sarà l’ultima volta. Poi ho aperto The Washington Post, come ogni mattina. Ho letto un paio di articoli sul casino che era successo il giorno prima con il licenziamento del presidente della Camera americano e su come imparare a mangiare sani per vivere più a lungo. Poi mi hanno chiamato le sorelle per sapere come stavo. Bene, rispondevo: non è che non lo sapessi, rispondevo con una certa convinzione.

 

Poi, invece, è crollato tutto: convinzione, certo che lo sapevo, la vita va avanti, questa casa senza la mamma non ha più senso di essere nostra. Mi sono ritrovata nella parte della sala dove c’era la scrivania di papà, che avevo spedito qualche giorno prima per Cambridge. Mi sono accucciata contro il muro e ho pianto un pianto terribile, proprio come quando si è piccoli e si singhiozza. Non ricordo se ho urlato, ma insomma, rendo l’idea. E da quel pianto lì è cominciato il resto della giornata. Avrò fatto duecento chilometri avanti e indietro per tutta la casa, con la lentezza di chi è a una mostra. Mi guardavo intorno come per fotografare ogni piccolo dettaglio di ogni angolo: lo scricchiolio del parquet in camera mia, il dettaglio blu sulle piastrelle del bagno, la maniglia della camera della mamma, i libri ancora sulle mensole del corridoio, le foto rimaste appese per decenni nello stesso spazio del muro. Ho fatto questo giro centomila volte, quel giovedì. Quando arrivavo in camera della mamma, mi coricavo sul letto e anche lì giù lacrimoni. Mi faceva male il cuore, mi faceva male ogni fibra del mi corpo. Ho passato ore così, a camminare di stanza in stanza fermandomi qua e là a piangere. 

 

Poi mi sono accorta che erano già le sette e io ero ancora lì a stare male e a piangere. Adesso, però basta, mi sono detta. Ho fatto i pianti che dovevo fare, i pensieri tristi che dovevo fare, le osservazioni che dovevo fare. Adesso, si balla.

 

Avevo una bottiglia di bianco in frigo, che ho aperto e portato in sala con uno dei mille bicchieri. Cosa se ne faceva mia madre di tutti questi bicchieri di vino non lo saprò mai. Ho scaricato da Spotify una playlist di canzoni italiane fighe, ho acceso la cassa rossa che mi ero portata da casa, ho alzato il volume al massimo per non sentire più il dolore e ho ballato come una pazza, cantando a squarciagola e pensando che cazzo me ne frega dei vicini tanto poi ce ne andiamo. Sudavo, ballavo, cantavo e a volte un po’ piangevo. La bottiglia si svuotava e il dolore si scioglieva assieme al sudore. Quella casa lì, essendo più grande di quella degli amici, è sempre stata scelta dai miei genitori prima e poi da noi figlie per fare feste, far casino, ascoltare musica alta, bere molto, ridere come matti. E così, nella mia testa, era il modo più giusto per salutarla. 

 

Ballavo, ballavo, cantavo, cantavo bevevo, bevevo e per caso mi sono girata verso la porta e c'era mio cognato lì in piedi con una faccia tra il divertito e il preoccupato, che mi fa: “Ma cosa sta succedendo? Ti si sente dalla strada”. 


“Missione compiuta”, gli ho detto prima di abbracciarlo.

 

 

Commenti

  1. So quanta tristezza avrai provato....io l'ho provata con la villa dei nonni a Menaggio.Oggi lei e' ancora li' ...non ho il coraggio di andare perche' non c'e' piu' nulla di nostro .So che se dovessi passare di fronte al cancello ,vedrei mio nonno Americo con il rastrello e la nonna Maria affacciata alla finestra ad ammirare la gigantesca magnoglia !!! Che dolore!!!

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  2. Ho 60 anni e ho lasciato sei case e ogni volta ho cambiato vita....ma non è finita...tra 5 anni dovrò lasciare anche questa....e affronterò un altra vita... Io ho sempre chiuso la porta e ho lasciato tutto come era....qualche volta ci hanno pensato quelli del trasloco...altre non ho portato via nulla perché nulla era mio.... Le mie case! I mie ricordi...i miei sogni. Forse un giorno ci scriverò su qualcosa.... un abbraccio e, complimenti, ballare e bere è un buon modo per esorcizzare il dolore😊

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  3. Fa male questo post. Un abbraccio

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