Dopo due settimane
Sono passate due settimane da quando Luca si è trasferito nella sua nuova casa, e mi sembra che siano passati due anni. La buona notizia è che sta bene, che non mostra alcun segno di tristezza o di nostalgia. In queste due settimane siamo andati a trovarlo varie volte e abbiamo avuto la sensazione che gli dessimo un po’ fastidio. D’altronde, lui non ha fatto che dirci go away, shut the door, per cui abbiamo anche avuto poco margine di errore a nostra disposizione.
La settimana scorsa ho deciso di portarlo a mangiare le patatine fritte, cosa che in passato è sempre stata una figata per lui. Ho impiegato più di un’ora ad arrivare e durante il viaggio ero felice come quando da ragazza andavo a un appuntamento con un fidanzato: cuore in gola, mani sudate ma fredde, quella fretta di arrivare il prima possibile. Immaginavo il suo viso aprirsi in uno di quei suoi sorrisi che scioglierebbe il cuore anche a Putin. Sarebbe venuto verso di me, mi avrebbe abbracciato e mi avrebbe detto: “Bear in the Blue house!”, come sempre.
Sono arrivata che erano le quattro. Avevo avvisato gli operatori che sarei arrivata e infatti Luca era quasi pronto per uscire. Ho parcheggiato e mi sono fiondata davanti alla porta di casa, ho bussato e mi ha aperto Chrystal, la coordinatrice. “Luca è in camera sua che ti aspetta!”, mi ha detto. Luca era seduto sulla poltrona a dondolo verde che sua zia gli ha regalato per la sua nuova stanza. Non ha alzato gli occhi dall’iPad fino a quando non l’ho salutato io. Non è venuto verso di me e non ha particolarmente sorriso, ma ha detto: “Bear in the blue house!”. Sono andata da lui e l’ho baciato tipo cento volte, poi l’ho aiutato a mettersi le scarpe e gli ho detto che ero venuta per portarlo a mangiare le patatine. Siamo usciti dalla sua stanza, prima io con l’iPad in mano e dietro lui che mi seguiva perché rivoleva la sua musica. Siamo usciti di casa e gli ho fatto vedere la mia macchina, che lui ama e chiama to the car. Ci stiamo per avvicinare, siamo a metà tra la porta di casa e la portiera, e lui fa dietrofront e corre verso la porta. “Dai, vieni! Andiamo a prendere le patatine!”. No! No! Non c’è stato verso. Ho ribussato, Luca è corso in camera sua e io dietro come una morosa lasciata malamente il giorno del suo compleanno. Siamo di nuovo in camera sua. Chiudo la porta e piango un pianto di dolore profondo, come chi si sente messa da parte dopo anni di amore intenso. Siamo rimasti insieme per una mezz’oretta, poi con la coda fra le gambe sono ritornata a casa.
Da quando Luca è piccolo, ho sempre detto a chi tentava di comunicare con lui e lui non reagiva, di non prendersela, non è nulla di persona: le persone come lui non fanno le moine, e se non ha voglia di interagire, non lo fa. Ho spinto alcuni famigliari e amici a continuare a provare, malgrado gli scarsi risultati. Ma ho sempre enfatizzato il fatto che lui non ce l’aveva con loro e che non avrebbero dovuto prendersela. “Le persone autistiche sono così”.
Poi capita a me: Luca non ha voglia di stare insieme, è preso in altre faccende. Niente di personale. Le persone autistiche sono così, lo ripeto da ventisette anni. Ripeto anche che non c’è bisogno di rimanerci male, di riprovarci un’altra volta. Non lo fa con malignità. Lo fa perché così sono le sue regole. Niente, non sono riuscita a consolarmi per niente. Perché quando la mente e il cuore non sono allineati, allora succedono casini. È lì, in quella linea spezzata tra il sapere oggettivamente una cosa e non accettarla con il cuore che poi si muore dissanguati. Ci riproverò, mi sono detta in macchina. È ovvio che mi vuole bene, solo che oggi non ne aveva voglia, fa niente.
E comunque è uno stronzo.
Abbraccio ❤️
RispondiElimina♥️sei rara
RispondiEliminaVi ho pensato e aspettavo questo post ♥️
RispondiEliminaAspettavo notizie,il cuore ha la meglio sulla ragione in questo caso ….
RispondiEliminaAndrà meglio la prossima volta ❤️❤️