Festa della Mamma di stocazzo
Ieri si è festeggiata la Festa della Mamma e verso le 17:30 mi ha assalito un grumo di malinconia. Non solo per l’assenza ancora inconcepibile di mia mamma, ma anche per le mamme di quei tempi là. della sua generazione che ha vissuto gli strascichi della guerra, quando quel poco che c'era doveva essere condiviso senza tante storie, quando le regole erano ben chiare, e anche le responsabilità di ogni individuo con cui si conviveva.
Per noi figli, era il periodo delle sculacciate, dei castighi a lungo termine. Del “non ti alzi da tavola fino a quando finisci”, dei “fai i compiti che poi li controllo”, del coprifuoco delle nove emmezza di sera, dei “se arrivi in ritardo a scuola, sabato non esci con gli amici”. La camera doveva essere tenuta in ordine, si cenava insieme e chi osava andare a prendere una pizza con gli amici, scattava la famosa frase: “questa casa non è un albergo”.
Poi mia madre, soprannominata Cianciulli (come la saponificatrice di Correggio, che faceva il sapone con le ossa delle sue vittime), a regole e castighi batteva tutti. Ma in generale, i figli sapevano bene dove stare nella scala di importanza: stavano bassi, schisci, come si dice a Milano.
Regola numero uno: guai a te rispondere male. Gli occhi al cielo rappresentavano forse il più grande sgarbo, da pagare con il piatto pieno della cena da consumare sul cesso. Così impari. Non esistevano scuse, perché si partiva dal presupposto che i figli erano comunque nel torto.
Ricordo una volta che ero già grande, avrò avuto 18, 19 anni. Ero uscita con il mio fidanzato di allora, che aveva parcheggiato in via Larga per andare a fare una passeggiata in centro. Erano le nove e un quarto. Io dovevo rientrare non dopo le dieci emmezza. Ritorniamo alla macchina alle dieci e venti, tutto il tempo di arrivare a casa, e la macchina è completamente distrutta: qualcuno l’aveva centrata. Le dieci e venti sono subito diventate le undici meno venti: carabinieri, robe. I telefonini erano ancora roba da Star Trek. Alle undici e un quarto, il mio fidanzato mi paga un taxi per tornare a casa. Arrivo e mia madre è seduta nel buio su una sedia che aveva messo nel mezzo del corridoio. Cerco di spiegare: l’incidente, i carabinieri. “Non me frega niente. Sei in ritardo”. Castigo di un mese. Per dire che le scuse, almeno a casa mia, valevano come il due di picche.
Adesso invece siamo genitori loffi, impauriti dai nostri figli. che sono al centro della famiglia. Si teme di essere troppo severi o di dare regole troppo rigide, per cui gliene concediamo di ogni. Si teme di sembrare insomma come le nostre mamme e il risultato è che cresciamo persone maleducate, piene di sé, che si sentono più importanti, più intelligenti e più fighi degli altri.
Prendi Emma, per esempio. Essendo nata in una famiglia complessa, lei, che ha sette anni meno di Sofia e dieci meno di Luca, è arrivata un po’ tardi, quando io e Dan non avevamo più molta voglia di fare i genitori, lo ammetto. Non che fossimo stati particolarmente severi con i primi due, ma le regole, pochissime, erano chiare. La terza invece ha raggiunto livelli di menefreghismo mai visti prima: le manca completamente il senso della comunità famigliare, per esempio. Mangia quando ha voglia, spesso in camera sua. Le parlo attraverso una porta chiusa a chiave. Vive in una stanza piena di vestiti sporchi, piatti anche, lì da giorni. La televisione, muta, sempre accesa, giorno e notte. Si fa i cazzi suoi. Riusciamo a parlarle quando arriva, mentre sale le scale per chiudersi nel suo mondo. Un disastro. La nostra fortuna è che, essendo la terza di una famiglia complessa, ha imparato a non fare cagate e ha una bella testa sulle spalle. Ma le manca completamente la voglia di stare con noi, con cui parla solo quando ha bisogno di soldi e della macchina. E io soffro come una bestia. In parte per i sensi di colpa e in parte per essere parte di una generazione di genitori che teme i propri figli. I miss you, le ho detto più volte con le lacrime agli occhi.
Ieri era la Festa della Mamma e, tornando dalla casa di Luca, l’ho chiamata per dirle: "Almeno stasera, ceniamo insieme”. Risposta: “Ma io ho già mangiato. Se vuoi mi siedo a tavola con voi”.
Primo giramento di coglioni.
Arriviamo a casa, lei dorme e non scende a darmi un abbraccio né niente.
Secondo giramento di coglioni.
Dan si fa il suo hamburger e se lo mangia da solo.
Terzo.
Gli dico che mi sarebbe piaciuto mangiare insieme, chiamo Emma due volte. Dalla porta chiusa urla: “Whaaaat!” Le chiedo di scendere, mentre mi preparo delle verdure con la feta da mettere nel forno. Dan ha finito di mangiare, Emma avrebbe pagato centomila dollari per non essere con noi.
Quarto giramento di coglioni, ma questa volta, purtroppo per lei, apro la bocca e le ricordo che: questa casa non è un albergo; abbiamo tutti delle regole da seguire, tipo mangiare insieme; che non esiste che lei ci tratti come un Bancomat; e che mi sarebbe bastato anche un fiore marcio, ma un minimo di riconoscimento per il fatto che mi faccio un culo così da 28 anni.
Pianti, abbracci, scuse.
Con mia madre, non avrei mai osata comportarmi così. Sarei stata in castigo dal 1939 al 1997.
Per dire la differenza.
(nella foto, una famiglia unita)
La "malinconia di quelle mamme lì" è un'immagine struggente.
RispondiEliminaAlle amenità elencate nel primo periodo aggiungerei anche la implacabile frequenza domenicale delle funzioni religiose. Il risultato? Almeno in Toscana un drastico allontanamento dalla sfera del sacro con punte di iniziativa blasfema veramente rimarchevoli. Un mio compagno di università arrivò a impiccare in piazza il Bambin Gesù sottratto dal presepe parrocchiale al solo scopo di finire sui giornali.
RispondiEliminaQuesto senza nulla togliere a Dio, Patria e Famiglia: come l'Oscar che non aveva mai lavorato perché per queste cose l'Oscar è sempre stato coerente (cit.) molti toscani la pensano esattamente allo stesso modo su tutti e tre i fondamenti della società "occidentale".
Posso darti il punto di vista di una figlia minore cresciuta in una famiglia simile alla tua. Mio fratello ha un ritardo mentale molto marcato a causa di una manovra ostetrica errata avvenuta durante il parto. Per tutti gli anni in cui sono vissuta a casa io sono stata “l’altra figlia”. Quella sana che se la poteva (e doveva) cavare da sola. Quella di cui si parlava il 5% del tempo, perché il 95% era dedicato a mio fratello, alle cure per mio fratello, al sostegno per mio fratello, all’esperienza di avere un figlio come mio fratello. Io non ero io. Ero la sorella di lui. Si usciva? Bisognava organizzare l’uscita secondo i bisogni di mio fratello, e che il signore ce la mandasse buona. Io volevo andare ad un compleanno? “E con tuo fratello come facciamo?”. Poco alla volta, il rapporto con i miei genitori si è bruciato. Il grosso del distacco - almeno quello emotivo - si era già formato quando ho compiuto 16 anni e ora, a 29, posso dirti che non la crepa non si è mai rimarginata, anzi. Anche io chiedevo denaro, e senza il minimo rimorso. Lo vedevo come il risarcimento per essersi dimenticati di avere due figli, anziché uno.
RispondiEliminaCon il cuore in mano, ti chiedo di cercare di capirla. Perché la solitudine che nasce avendo un fratello del genere trascina in luoghi molto molto bui.